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Herbert Tichy, viennese, non si considerava certo un alpinista puro, quando decise di tentare il Cho Oyu, allora inviolato: sebbene avesse alle spalle la salita di qualche seimila inviolato, si considerava piuttosto un amante della montagna e un viaggiatore. Non era infatti certo un ascetico atleta, ma non disdegnava affatto bere e fumare. Era stato autore di peregrinazioni in motocicletta per l’Asia Centrale negli Anni ’30. L’aspetto più innovativo della spedizione fu la sua leggerezza: il carico passò inosservato tra i giornalisti di stanza in India, perché la spedizione fece molto affidamento sul cibo reperito in loco e non era previsto l'ossigeno. Leggerezza anche emotiva: fu condotta in maniera quasi scanzonata da un gruppetto di amici, come traspare dal tono del libro, affatto diverso dall’impronta militaresca del filmato della spedizione italiana sul K2. Un’altro aspetto interessante, visibile nella copertina del libro italiano, fu la fotografia: furono scelte pellicole a colori, allora poco diffuse, e per questo furono adottate divise dai colori sgargianti. Nel racconto degli eventi l’aspetto alpinistico o delle peripezie dei protagonisti non riveste un ruolo preponderante. Oltre a molte liriche descrizioni dei paesaggi e delle riflessioni suscitate, occupano molto spazio anche i rapporti umani maschili tra i vari membri della spedizione, oltre che quelli con i portatori e le popolazioni che li ospitano. Come emerge pure la descrizione antropologica della vita dei villaggi attraversati. L’autore narra da alieno, non conoscendone né le usanze né la lingua né i pensieri, ma da ammiratore partecipe, come traspare dalla lunga descrizione delle bandiere di preghiera.
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