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recensione di Vallerani, M., L'Indice 1992, n.10
Le "storie d'archivio" esaminate dalla Zemon Davis sono contenute nelle domande di grazia presentate al re da persone colpevoli di omicidio. Per ottenere il perdono regio, i supplicanti dovevano fornire una propria versione dei fatti che giustificasse il delitto compiuto. La 'lettre de rémission' seguiva un lungo iter formativo: la domanda, redatta dal notaio regio, veniva letta davanti al cancelliere, esaminata da altri funzionari che ne decidevano l'ammissibilità, firmata dal re e pagata dal supplicante. Era inoltre necessaria la ratifica del tribunale regionale, che interrogava il reo sia per verificare la corrispondenza della versione orale a quella della lettera, sia per metterlo di fronte alle obiezioni dei parenti della vittima o dei testimoni locali. Nonostante i numerosi passaggi procedurali, la grazia si fondava essenzialmente sulla validità della storia narrata nella domanda. Anche l'intervento dei notai era ben delimitato dall'obbligo di scrivere la storia così come era accaduta, cioè come veniva loro raccontata.
La Zemon Davis si concentra quindi sull'aspetto fictional della lettera, inteso nel senso più ampio di 'fingere', vale a dire forgiare una storia, costruire un intreccio. Il soggetto principale diventa l'abilità creatrice dei supplicanti, anche di quelli appartenenti ai ceti inferiori che avevano molteplici vie per formare le proprie capacità narrative. Creare una storia non voleva dire inventarla o falsificarla; al contrario, le esigenze del genere richiedevano particolari realistici, o meglio un "effetto di reale" che rendesse plausibile il racconto. Le strategie tuttavia divergevano. Le storie di uomini (cap. II) erano quasi tutte imbastite sulla trama della 'chaude colle', un accecamento improvviso del supplicante che è stato provocato oltre il limite della sopportabilità dettato dal proprio senso dell'onore, dalla posizione sociale o dal mestiere. Qui il pericolo di creare schemi artificiali è molto forte: le cause presentate come giustificazione, siano esse relative all'onore, all'eredità o ai debiti, si ritrovano in tutti i racconti. La Zemon Davis ritiene comunque che nelle suppliche vi sia una corrispondenza stretta tra la condizione sociale e la coerenza dell'azione violenta per la quale si chiede il perdono, secondo un realismo diffuso anche nella letteratura del tempo. Nei racconti di donne, invece (cap. III) si riscontra una maggiore varietà di intrecci e di motivazioni: le supplicanti non ricorrevano mai alla collera o alle scusanti legali e inventavano ogni volta una storia che rendesse non solo giustificabile ma anche inevitabile il delitto commesso.
Il libro della Zemon Davis contiene due importanti verità: la prima è che gli atti giudiziari, e in particolar modo le grazie, si basavano su racconti, con strutture narrative proprie tanto da costituire un vero "genere"; la seconda è che i medesimi atti rappresentavano un punto d'incontro quasi eccezionale tra la cultura "popolare" e la cultura ufficiale dove la storia raccontata dall'imputato, di qualunque strato sociale fosse, si doveva armonizzare senza snaturarsi con le regole del perdono regio. Tuttavia, la sovrabbondanza di esempi e le lunghe digressioni sui coevi racconti di crimine (da Margherita di Navarra a Shakespeare) - che per altro avevano pochi contatti con le trame intessute dai supplicanti - non compensano l'assenza di particolari sul contesto in cui le grazie venivano concesse e sull'accidentato percorso seguito dalla domanda, che metteva a dura prova la costruzione del racconto. Si avverte in sostanza una sopravvalutazione della natura letteraria delle domande di grazia rispetto alle esigenze proprie del genere e alla funzione della lettera: "salvarsi la pelle con un racconto".
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