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recensione di Lizzi, R., L'Indice 1990, n.10
(recensione pubblicata per l'edizione del 1990)
Veri e propri tentativi di scrivere qualche sparso capitolo di una storia al femminile difficilmente si potrebbero rintracciare prima degli anni sessanta; in poco tempo, tuttavia, la ricerca delle donne sulla loro storia si è tanto arricchita da rendere indispensabile una seria riflessione circa gli orientamenti da seguire, prima di affrontare nuove indagini. Quelli che hanno guidato gli studiosi impegnati in questa "Storia delle donne in Occidente" sono, d'altra parte, ben chiari. Accennati nell'introduzione generale (pp. V-XVII), essi vengono chiariti in una sezione del I volume interamente dedicata al problema (pp 514-48). Nonostante la posizione eccentrica di questa parte (alla fine, anziché all'inizio del volume) è evidente che essa contiene indirizzi di ordine generale validi non solo per l'antichità. Il progetto di questa "Storia" in 5 volumi nasce, infatti, come tentativo di scrivere una storia delle donne attraverso la storia delle relazioni fra uomini e donne, relazioni intese come espressione non di una realtà biologica immutabile, bensì di una "costruzione sociale che si può scomporre": solo così essa può realmente divenire parte integrante della storia globale. Negli autori dell'opera è cosciente cioè l'accettazione di alcune recenti nozioni storiografiche, quali quella di "genere" (nel senso precisato da J. Scott, "Gender. A Useful Category of Historical Analysis", "AHR", XCI, 1986) e di "sexual asymmetry" (J. Blok, P. Mason, "Sexual Asymmetry. Studies in Ancient Society", Amsterdam 1987), solo da pochi anni adottate quali criteri ispiratori di un nuovo tipo di indagine nella ricostruzione della realtà storica.
Applicati allo studio della donna nell'antichità, essi stanno dando alcuni significativi frutti e questo volume ne è prova, essendo insieme di buona qualità scientifica e di ampia divulgabilità. I saggi sono raggruppati in due parti fondamentali (se si esclude la terza di cui s'è detto): una relativa ai modelli femminili elaborati nel mondo greco-romano e una su Rituali e Pratiche di donne. Più che distinte, le due sezioni si propongono come complementari, allo scopo di superare la cesura che spesso si verifica nell'analisi fra rappresentazione ideale e realtà storica. Può stupire, in tal senso, la scelta di far precedere allo studio delle pratiche concrete gli articoli dedicati ai modelli ideali. Di fatto, i problemi che inevitabilmente si pongono per una storia delle donne in qualunque epoca ("mancanza e insufficienza di fonti, prevalenza se non esclusività del discorso maschile") si presentano in modo anche più accentuato per l'antichità. Predominando "lo sguardo maschile" è questo, in primo luogo, che si può studiare; anzi, proprio da quanto gli uomini amavano dirsi sulle donne, dal modo in cui se le rappresentavano, Si deve partire per enucleare i fondamenti di abitudini mentali, misure giuridiche, istituzioni sociali durate per secoli. La rappresentazione maschile della realtà femminile, dunque, è inevitabilmente il fondamento di tutto ciò che di quest'ultima si può oggi ricostruire.
Con tali presupposti metodologici, non potevano essere accolti resoconti, per lo più approssimativi, del "vissuto" delle donne. Nel volume, tuttavia, viene tralasciato anche lo studio del loro ruolo nella vita economica di regioni specifiche, oggetto di recenti accurate sintesi, per quanto riguarda, per esempio, la Beozia ellenistica o l'Egitto ellenistico e romano. Emergono invece in primo piano alcuni problemi trattati finora solo in lavori per lo più inaccessibili al pubblico dei non specialisti, quali le funzioni delle divinità femminili nel pantheon greco (pp. 13-55), o il fissarsi, fra Omero e Galeno, di un discorso filosofico che rappresenta la donna come essere passivo e debole, neppure genitore in senso stretto, perché incapace di fornire la forma-anima, data dal movimento iscritto nello sperma e dunque dal padre (pp. 58-100). A questo modello negativo si ricollega l'esclusione della donna da forme anche elementari di vita politica: la sua incapacità di trasmettere la legittimità è individuata da Y. Thomas come l'origine di tutta una serie di disparità di ordine giuridico, che le impedirono di trascendere la sfera ristretta della soggettività per assurgere "al senso astratto di una funzione pubblica" (pp. 103-76). Le scene figurative dei vasi ateniesi del V-VI secolo parlano lo stesso linguaggio: la donna può essere presente in ruoli e momenti in cui il privato è supporto indispensabile del pubblico, ma essa non agisce mai nello spazio civico (pp. 179-240).
Non essendo pubblicamente rilevante, essa è talvolta assente anche dalla rappresentazione di quegli istituti che, come il matrimonio, erano fondamentali per il suo riconoscimento sociale, l'unico allora possibile (pp. 246-314). Anche in campo religioso, dove pure furono conferiti alle donne onori e prerogative importanti (pp. 374-423), la loro reale funzione fu quella di "manifestare la propria incapacità religiosa" (pp. 424-64), essendo escluse dall'uccisione della vittima, che era momento essenziale del sacrificio. Proprio la riflessione sull'universo del sacro, tuttavia, può gettare una luce nuova sulla posizione, per molti aspetti paradossale, della donna: esclusa e al tempo stesso parte integrante come nel culto pagano, oggetto di vituperio e nel contempo di lodi sfrenate come nella trattatistica cristiana, la donna pole esercitare comunque un potere informale di cui è peraltro difficile definire ambiti e limiti (pp. 465-513). Non si dimentichi tuttavia che, dall'VIII secolo a.C. al IV d.C., depositarie di tale forma di potere furono solo le donne provenienti da gruppi socialmente ed economicamente rilevanti: celebrate per il loro evergetismo nelle iscrizioni municipali, esaltate come benefattrici in quelle cristiane.
La discriminante sociale non spiega solo la possibilità di alcune donne di influenzare la vita politica di una città o di godere di un'autorità riservata ai soli uomini. Dal saggio di A. Rousselle (pp. 317-72) è chiaro che solo le matrone potevano sfuggire, in qualche misura, a quel determinismo biologico che si abbatteva sulle donne sposate, destinate alla procreazione: lasciando a schiave e a concubine la funzione di soddisfare i desideri sessuali dei loro mariti, esse potevano sperare di sottrarsi alla condanna a morte che prima o poi colpiva al momento dei parti e degli aborti. Le profonde disuguaglianze che attraversavano tutto il mondo antico operavano, dunque, anche all'interno dello stesso gruppo di donne.
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