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Che dire, dopo tanti elogi? Semplicemente che di fronte all'autore di un verso orrendo come "né tanto meno cancellarlo" bisognerebbe forse esercitare una critica più esigente.
Ruffilli si – e ci – avvicina in punta di piedi, con grande intelligenza e umanità, al complesso mondo interiore ed esteriore di un detenuto e racconta il dramma intimo e pratico della convivenza atroce con una condanna che spesso oltrepassa il limite della dignità della persona, fino a non limitarsi alla condanna del solo fatto compiuto ma che rischia di spingersi fino all’essere dell’individuo stesso che ha compiuto il fatto, ragionamento perverso che, portato all’estremo, può arrivare a legittimare persino la condanna a morte, punizione ultima, definitiva e irrevocabile della persona umana. Egli mette in evidenza un bigottismo sociale troppe volte capace di condannare chi è stato, per così dire, “beccato in reato”, rispetto a chi non lo è stato; ma la domanda è: chi può mai dirsi innocente di fatti condannabili? Sintomatica di una visione particolare del poeta sulla pena detentiva è la poesia intitolata “Il patto”: “[…] / ma che significa punire? / E’ un patto: si arriva / a giudicare il fatto, / non la persona. / E una sola azione / non corrisponde all’uomo, / non può rappresentarlo / né tanto meno cancellarlo.” L’autore rimette le cose, con un accento fortemente umano e comprensivo, nell’ordine che devono avere, l’errore di un’azione non corrisponde all’uomo, e non può permettere a nessuno di decidere la bontà o la cattiveria di una persona. La persona è una cosa, il fatto compiuto un’altra. Nella poesia intitolata “Lettera morta”, Ruffilli descrive – in brevissimi versi che hanno la stessa e immediata bellezza dello scatto fotografico su azioni che riconducono a pensieri intimi dell’uomo detenuto in prigionia – la solitudine e lo scoraggiamento, il dissolvimento e l’oscurità, la perdita di ogni conquista dello spirito laddove il male semplicemenmte è, per quanto non voluto: “[…] / Le grandi conquiste / dello spirito / quaggiù sono solo / lettera morta. / In basso regna l’abiezione: / il male non si vuole, / semplicemente è. / Dissolvimento, / oscurità infinita… / la fine / di tutti i valori / della vita”.
Paolo Ruffilli torna, dopo l’alto esito de “La gioia e il lutto” e a sette anni da quell’evento, con “Le stanze del cielo”. La nuova raccolta persegue e riplasma la struttura poematica che caratterizzò il libro precedente in una consonanza tematica bene evidenziata da Alfredo Giuliani in prefazione: “Quella stessa inclinazione a oggettivare i dati soggettivi… rende capace Ruffilli di calarsi nella soggettività degli altri, da poeta che è anche narratore. Quello che accade con le molteplici voci di La gioia e il lutto, accade anche con la mutevole voce recitante di Le stanze del cielo e con quella esaltata e sconfitta di La sete, il desiderio, l’altra sezione del nuovo libro che conduce il lettore in due territori a dir poco inconsueti per la poesia: lo spazio concentrazionario “esterno” della prigione e quello “interno” della tossicodipendenza, in entrambi i casi dietro all’ossessione della perdita della libertà.” Pertanto Ruffilli, viene costruendo anche un percorso di decantazione della mitologia del linguaggio. L’universo si cangia in un’immagine ante - mitica dove l’Io si de - termina in una voluntas di introiettamento nelle plaghe del Desiderio. Lo ’strappo’ dall’idillio lascia il luogo del rimpianto alla formula paratattica che si può tradurre a sua volta in formula tri - logica: “Sogna, Desidera, Realizza”. Un percorso mai del tutto immune da pericoli e agguati poiché l’approccio al Desiderio produttivo comporta l’alto rischio dello smarrimento di un’identità composta di più codici strutturati nel corso della Storia, dell’Etica e della Morale. Non a caso tutto ciò che si offre come linea di fuga ai controlli dello storicismo e dei nuclei precostituiti desta e desterà sempre ragioni di sospetto (E’ qui che, dove niente/accade, il tempo/è senza essere/mai stato,/un’attesa senza luce/e senza fine./Solo chi sta/nel cuore dell’inferno/sa cosa sia/l’eternità presente,/dannato nell’oscurità/più fonda,/un guanto rovesciato/nel suo interno.” E’ qui - pag. 31).
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