Una delle arringhe giudiziarie, a noi pervenute, di Iseo (l'oratore ateniese che fiorì sui principî del IV secolo avanti l'era volgare e fu maestro a Demostene), arringa intitolata: Della eredità di Mènecle, tratta di un caso giuridico che suggerì in germe la idea della presente commedia e il nome del suo protagonista. Ed è curioso che dei tanti grecisti i quali si son degnati di farmi, nelle appendici critiche, la lezione sulla commedia mia, sentenziando non verosimile il caso, nessuno abbia mostrato tampoco di conoscere il buon vecchio oratore Iseo almeno di vista. Mi sbaglio: l'uno di essi, più grecista degli altri, sentendo proferito nella commedia quel nome, mi rimproverò di avere alluso al discorso di Iseo dell'onorevole Zanardelli, e mi ammonì paternamente che queste allusioni non sono roba di sapor greco! Passiamo oltre... e veniamo al piato giudiziario che dovette decidersi a quei tempi davanti ai giudici cittadini ateniesi. Un giovine orfano adottato per figlio da certo Mènecle, al quale avea dato la propria sorella in isposa, e divenuto, alla morte di Mènecle, erede di lui, si vede contesa la eredità da un fratello del defunto: il quale afferma in tribunale l'adozione non essere stata legittima, ma carpita al vecchio, già imbecillito dall'età, per mezzo di sua moglie, sorella all'adottato. Iseo scrive l'arringa in favor di quest'ultimo e sostiene legittima la adozione e la eredità, difendendo il giovine dall'accusa. Era questa poi falsa? Era vera? V'ha chi inclina a quest'ultima ipotesi: e scorger vorrebbe nell'arringa di Iseo la perizia di un avvocato abilissimo messa a servizio di due giovani imbroglioni, sfruttanti la imbecillità senile di Mènecle. A me la ipotesi pare molto avventata; dato che le cose stessero a quel modo, bisognerebbe ammettere che causa cattiva di rado fu difesa con migliori e più commoventi argomenti. Checchè ne sia, ecco i fatti, quali l'accusato, nell'arringa che da Iseo per lui fu scritta, innanzi ai giudici li espone: giusta la legge che agli accusati prescriveva di perorare la propria causa in persona: Due vecchi ateniesi, Epònimo del borgo di Acarne e Mènecle, erano uniti da intima amicizia. Il primo morì lasciando quattro figli, due maschi (di cui l'uno è l'accusato) e due femmine. La maggiore fu maritata dai fratelli a certo Leucolofo. Quattr'anni dopo, quando la minore era già in età da marito, al vecchio e ricco Mènecle morì la prima moglie: ed egli andò dai due figli di Epònimo a chiedere in seconde nozze la lor sorella, in memoria dell'amicizia antica che lo legava al loro padre defunto. I due fratelli, in reverenza della memoria del genitore e pensando interpretarne il voto, di gran cuore gliel'accordarono. Ed ora lasciamo all'accusato la parola: «Così collocate entrambe le sorelle, io e mio fratello, essendo giovani, ci demmo alla milizia e partimmo per la Tracia sotto la condotta di Ificrate. Quivi fattoci onore ed arricchitici, tornammo qua e trovammo la sorella maggiore con due figliuoli, e la minore sposata a Mènecle, senza prole. Questi, di lì a due o tre mesi, parlò con noi, e dettoci della sorella nostra un gran bene, si lamentò della propria età e dell'essere senza prole. Disse non dovere essere quello per lui il guiderdone della sua virtù, di invecchiare con lui senza aver figli: era già abbastanza che fosse infelice lui. Questo parlare chiaramente mostrava che egli la rimandava amichevolmente: perchè nessuno prega cui odia. Ei ci pregava di rendergli un segnalato servigio, dando la nostra sorella in moglie ad un altro col consenso di lui. E noi lo esortavamo a persuadere egli stesso la donna; e ove ella avesse acconsentito, noi avremmo appagato il desiderio suo. E quella, sulle prime, non volle saperne; ma poi col tempo, benchè a malincuore, acconsentì. E così la maritammo a Elèo del borgo di Sfetto, e Mènecle le restituì la dote.
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