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Il bilancio degli incontri tra letteratura e mito nella narrativa italiana contemporanea è singolarmente magro. Se si segnano – non troppo a caso – a un estremo i Dialoghi con Leucò di Pavese (1947) e, all’altro, gli ultimi romanzi della Ortese, nel mezzo Le specie del sonno – di cui Italo Calvino aveva saputo salutare nel 1975 la novità – splende isolato come un astro senza atmosfera, la cui luce comincia soltanto ora a raggiungerci. Poiché qui il mito non ha assolutamente, come in Pavese, il sapore aspro del sangue e della morte, né intreccia, come nelle trame fiabesche dell’Ortese, i fili del Meraviglioso e dell’Inquietante. Sembra, al contrario, che l’autrice, infilandosi per caso in un uscio rimasto aperto, sia riuscita a sorprendere le creature del mito nei loro gesti più quotidiani e immediati, cioè nel loro assoluto ignorare di essere mitiche. I centauri insonni, gli ipnotici ermafroditi, il dio Pan, i leoni araldici in lotta, l’eroe e il mostro nel labirinto, Eracle sfinito si muovono in queste pagine in una completa assenza di enfasi – e proprio questo smagamento dal mistero, questa ritrovata profanità è il loro mito, che Ginevra Bompiani comincia per la prima volta a raccontare. Le sue creature vivono in un tempo sospeso, come se non potessero mai avere una vita, parlano come se non potessero mai avere una lingua. Per questo la Stanchezza è la cifra ultima che il mito sembra lasciare sulle cose, quasi una leggera scucitura fra le parole e il mondo, uno stacco sottile fra noi e noi stessi, in cui vediamo sfuggirci la vita, assistiamo, fra sonno e veglia, al trascorrere del nostro mito.
Le specie del sonno è un classico ritrovato nella letteratura italiana del Novecento. Giorgio Agamben
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