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“Sospetto e silenzio” di Orlando Figes è un tentativo grandioso, fatto con sensibilità e sagacia, di ricostruire, attraverso centinaia di libri di memorie e interviste orali, la vita privata del popolo russo durante il trentennio della dominazione di Stalin. Avevo già letto parecchie testimonianze e opere storiche sull’epoca di Stalin, ma il libro di Figes mi ha impressionato più di tutti gli altri per l’ampiezza e la meticolosa attenzione con cui descrive la ferocia e la stupida inutilità della repressione staliniana. Si rimane sgomenti e quasi senza parole. La realtà descritta è così vasta ed atroce da far immaginare che solo un nuovo diluvio universale avrebbe la forza di purificarla e rigenerarla. I dirigenti e gli intellettuali comunisti dei paesi occidentali fecero finta di cadere dalle nuvole quando nel 1956 Krusciov denunciò i crimini di Stalin, ma già da una trentina d’anni venivano pubblicati in Europa e in America libri importanti (all’epoca derisi o ignorati) che criticavano lo stalinismo o descrivevano in modo drammatico la vita in Unione Sovietica. Anche dopo il crollo del 1991, il dibattito sul comunismo è andato poco a fondo. L’opinione pubblica è martellata dal ricordo dell’Olocausto, diventato rito e ufficialità, ma chi ricorda i milioni di cittadini sovietici morti senza colpa?
Questo bel tomo, corredato di tante foto , ha il pregio di far apprezzare cose che ci sembrano normali:la libertà di stampa e di parola, una abitazione decorosa, una famiglia accogliente...
Recensioni
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Quando si parla della Russia di Stalin è difficile sottrarsi al potere evocativo di immagini dalle tinte forti: collettivizzazione forzata, repressione di gruppi sociali e nazionali, deportazioni di massa, costruzione di opere monumentali dettate dalla follia punitiva del dittatore, straordinari sacrifici nelle vicende belliche. Il mondo interiore del normale cittadino sovietico è rimasto a lungo in ombra. E se si eccettuano alcune memorie di intellettuali e dissidenti, di straordinaria lucidità e forza morale, che proprio per questo non ci aiutano, sono poche le opere che fanno luce sulla psicologia di milioni di cittadini sovietici vissuti ai tempi di Stalin. Sospetto e silenzio. Vite private nella Russia di Stalin di Orlando Figes lo fa scegliendo un campione di fonti straordinario. Lo storico inglese si serve infatti non solo delle memorie e dei diari già pubblicati, ma anche di un'eccezionale quantità di documenti inediti, centinaia di archivi personali e di famiglia raccolti da una decina di ricercatori russi in ogni angolo della ex Unione Sovietica. A questo si aggiungono le interviste a più di 450 persone, delle classi e condizioni più diverse, tutti testimoni dell'esperienza staliniana (gran parte di questo materiale è ora consultabile sul sito dell'autore www.orlandofiges.com).
Sospetto e silenzio è un emozionante viaggio nella storia di decine di famiglie sovietiche i cui legami, di generazione in generazione, si spezzano sotto la pressione di varie ondate repressive che hanno il culmine nel grande terrore del 1937-1938, ma che lasciano tracce profonde nei decenni successivi. Con il tempo le repressioni allargano sempre più lo spettro sociale delle vittime: nobili, contadini benestanti o kulaki, ebrei, membri di nazionalità non russe, tutti coloro che non possono provare origini proletarie o che semplicemente destano sospetti agli occhi del potere sovietico. Alla fine non vi è quasi famiglia che non ne venga toccata. La materia viva del libro sono le reazioni, le strategie di sopravvivenza, i silenzi, le paure, le menzogne, le illusioni e i compromessi di tutti coloro che hanno vissuto quegli anni.
E come figura chiave del libro, l'autore ha scelto un personaggio i cui compromessi appaiono più dirompenti, Konstantin Simonov, un poeta e insieme una delle figure più in vista dell'establishment letterario sovietico. Nato in una famiglia nobile che subì la repressione sovietica, Simonov si dovette costruire un'identità del tutto nuova di scrittore proletario, rinnegando parentele e amicizie e lavorando infaticabilmente, chiudendo gli occhi di fronte ad atrocità che giustificava in nome degli ideali sovietici. Come lui, tanti altri cittadini sovietici che improvvisamente si ritrovarono ad avere genitori, fratelli, parenti tra i "nemici del popolo" e che impararono a nascondere legami e origini sociali malviste, a confezionarsi identità di classe che li aiutassero a sopravvivere o a progredire nella società sovietica. A volte il loro io interiore veniva assorbito dalla loro identità ufficiale: "Cominciai a sentire di essere la persona che avevo finto di essere" ricorda un testimone. Furono molti quelli che, pur avendo il padre o la madre deportati, continuarono a credere nel sogno comunista. Ida Slavina ricorda: "Non credevo che mio padre fosse un nemico del popolo (
) ma non avevo dubbi che i nemici del popolo esistessero". Tra i deportati, le reazioni più comuni erano di passività, rassegnazione, totale accettazione del potere sovietico e silenzio. Zinaida Buueva, ad esempio, deportata alla quale fucilarono il marito, per tutta la vita non parlò mai alla figlia della sua reclusione nel Gulag, dell'arresto del marito. La paura che si portava dietro dal Gulag la spingeva a un'accettazione acritica di qualsiasi cosa affermasse il potere sovietico. Era un meccanismo di difesa e di sopravvivenza.
Il regime stimolò diverse forme di silenzio nei suoi cittadini: il silenzio della paura, dell'annichilimento o dell'indifferenza. Ma anche le forme più varie di illusione e autoillusione: "Eravamo tutti educati ad aspettarci un futuro felice ricorda Ljudmila Eljaova. Ci immaginavamo il comunismo come un'epoca che avremmo avuto modo di vedere nell'arco della nostra vita, in cui tutto sarebbe stato gratuito, e ognuno avrebbe avuto la vita migliore possibile. Eravamo felici di aspettare un futuro così bello". Dopo la guerra, per moltissimi cittadini sovietici la vittoria del 1945 permise di giustificare tutto quello che il regime sovietico aveva fatto dal 1917 in poi, compresi gli anni del terrore. Ed è davvero commovente il disperato bisogno di tanti testimoni di idealizzare l'esperienza sovietica, chiudendo gli occhi di fronte alla realtà e alle loro stesse sofferenze, pur di dare un senso a quei sacrifici e a quel dolore.
Damiano Rebecchini
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