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Nel saggio il sociologo Bauman parte alla scoperta delle sorgenti del male in un percorso intellettuale complesso ed accidentato quanto quello che guidò gli esploratori alle sorgenti del Nilo. Sgombra il campo da interpretazioni precedenti come la teoria del filosofo Adorno che con il termine di "personalità autoritaria" avvalorava l'idea che la malvagità fosse predisposizione naturale ed innata. Poco convincente anche l'ipotesi molto praticata secondo cui sarebbero i condizionamenti comportamentali a risvegliare negli individui predisposizioni malvagie prima "dormienti". Bauman si tiene a distanza anche dalla teoria sulla banalità del male di H. Arent in cui la filosofa, rifiutando la tesi che il malvagio fosse uomo irriflessivo, sconsiderato, irrazionale, lo collocava nella banale normalità. A questo punto Z. Bauman accoglie la visione del filosofo Anders e sull'onda delle sue riflessioni cerca di dare risposta alla domanda da dove origini il male. Sicuramente il terreno fu preparato a Nagasaki dalla prima globale e incomprensibile atrocità che tolse la speranza di poter prevenire il male e lo rese plausibile, praticabile e per certi versi tollerabile per assuefazione. Le atrocità erano commesse grazie all'aiuto della tecnologia e questo rendeva gli uomini orgogliosi della loro scienza, ma rarefaceva per sterile distanza dagli obiettivi la pietas verso le vittime dell'immane disastro. Un corpo ridotto, poi, ad ordigno ad orologeria, sottrasse anche il residuo senso di umanità. A livello sociale Bauman ci spiega come il male nasca quando il potere di produrre sia stato separato dai poteri immaginativi e creativi. Se il male in epoca passata originava da voluttà, perfidia e disonestà, ora sembrerebbe dipendere da un deficit di immaginazione e quindi di empatia che rende asettica l'azione di schiacciare il pulsante micidiale. Così il male scaturirebbe dalla somma indifferenza del robot umano, poco più di un game violento in un'anonima Play Station.
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