Il saggio di Bozarslan è dedicato alla memoria di Rémy Leveau (1932-2005). Leveau, che nel lontano 1983 fu il primo politologo francese a dar vita, presso l’Institut d'études politiques di Parigi, a una scuola dottorale sul mondo arabo-musulmano, e a formare un’équipe di ricercatori che indagassero sull’islam in Francia. Leveau, che insegnava ai suoi studenti a moltiplicare le proprie letture su aree geografiche diverse dal Medio Oriente di cui si occupavano, a liberare il proprio sguardo aprendosi a altre discipline come la storia e l’antropologia, a capire l’islam leggendo testi sul giudaismo, a praticare l’analogia con altre epoche, a lasciarsi avviluppare da atmosfere più letterarie. Leveau, che insisteva perché i suoi studenti lasciassero le aule per andare a scontrarsi con altre tradizioni universitarie, a impregnarsi dei contesti in cui facevano ricerca abitandoli a lungo e a più riprese, a impararne le lingue. Leveau secondo il quale, dunque, per arrivare a formulare il politico, l’economico e il sociale era necessario osservare il caso empirico nelle sue dinamiche, nella sua durata e nella sua discontinuità, dandogli un valore euristico, inevitabilmente comparativo.
Dalla scuola di Leveau, sono usciti studiosi forse poco noti e frequentati in Italia, ma che, oggi, ci consegnano la visione più ampia, più completa e più articolata della regione mediorientale intesa come un’area culturale e non solo geopolitica. Tra gli altri, per citarne solo pochi, Valérie Amiraux, che oggi insegna all’Università di Montreal, e Khadija Mohsen-Finan, che oggi lavora Ifri (Institut Français des Relations Internationales) di Parigi, entrambe esperte di islam in Europa, Luis Martinez/Azzeddine Rakkah, oggi Cnr, forse l’unico profondo conoscitore delle complessità libiche, Ottavia Schmidt, già Università di Trieste, prima studiosa italiana ad aver indagato sulle pratiche dei muridi senegalesi. E, tra gli altri, Hamit Bozarslan, turcologo e curdologo, oggi all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, e autore di questa Sociologia politica del Medio Oriente, pietra miliare per quanti vogliano guardare al Medio Oriente usando categorie diverse dai “quattro modelli a pretesa ‘paradigmatica’ (che) hanno marcato gli studi sul Medio Oriente e ne hanno ipotecato potenzialmente il futuro”, sarebbe a dire: modernità, islamità, tribalismo, e la panoplia di concetti antropologici emic.
Decostruendo punto per punto, per poi ricostruire a partire da altre letture, più globali, Bozarslan, per fare un esempio, propone di guardare all’incremento della potenza dell’islamismo senza prescindere “dalle sue interazioni e i suoi attriti con l’occidentalismo, la sinistra o la destra radicali degli anni 1920-1970” e di configurarlo come “una risposta all’esaurimento delle formule politiche universali [occidentalismo e socialismo] adottate in passato dalle élite musulmane per bloccare il ‘declino’ delle loro società”. Proseguendo nel suo ragionamento, Bozarslan veleggia abilmente tra continuità e fratture. Esplora il concetto di totalitarismo applicandolo ai regimi dell’area. Spazia dall’Arabia Saudita alla Tunisia e al Marocco ma ingloba anche l’Iran, il Pakistan e l’Afghanistan. Fedele, a distanza di molti decenni, agli insegnamenti di Leveau, cita, accanto a molti studi di esperti del settore, Bauman, Bourdieu, Baudrillard, ovviamente Edward Said, Sartre, Hanna Arendt, ma anche narratori arabi di oggi come ‘Ala’ al-Aswani e il suo Palazzo Yacoubian (Feltrinelli, 2006) e Khaled al-Khamissi e il suo Taxi (Il Sirente, 2008).
Scritto nel 2010, il libro non affronta, com’è logico, le rivoluzioni e il loro sviluppo dell’ultimo triennio. Eppure, quasi inconsciamente, le preannuncia. Lo fa soprattutto nell’ultimo capitolo Fenomeni generazionali, figure del sacro, eroi e corpi politici dove dettaglia le rotture e le trasmissioni intergenerazionali, l’agismo e il giovanilismo, i pertugi strappati dalla società civile e dai movimenti sociali e di resistenza in luoghi che brillavano per assenza di partiti o spazi di espressione politica.
Nella corposa e densa prefazione alle edizioni italiana e turca, datata aprile 2013, Bozarslan riformula la tesi del suo saggio alla luce dell’ultimo biennio, a partire dal sacrificio del tunisino Mohamed Bouazizi considerato, appunto, uno dei “corpi politici” di cui sopra. Per farlo, parte dall’assunto che “gli eventi che si succedono nel mondo arabo da due anni rappresentano una crisi o una configurazione rivoluzionaria” e spiega come “il fatto che la dinamica rivoluzionaria vada di pari passo con quella della restaurazione non cambia per niente la realtà”. E conclude: “Spero di dare ai cambiamenti un senso che, talvolta, è reso illeggibile da una cronologia accelerata al punto da far (per dirla con l’espressione utilizzata da Jules Michelet per descrivere la Rivoluzione francese) ‘perire il tempo’”.
Elisabetta Bartuli