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È sicuramente meritoria l'iniziativa di pubblicare un'antologia di importanti autori libertari, alcuni più noti (Spooner, Tucker, Rothbard), altri meno (Childs, Hoppe), che hanno posto al centro della loro riflessione la difesa dell'individualismo e la polemica contro lo strapotere dello stato. Eccepibile è però l'impianto del saggio introduttivo di Iannello, opera forse più di un libertario che di uno studioso del libertarismo, come suggerisce immediatamente la perentoria affermazione di apertura: "Il liberalismo oggi ha senso solo se lo si interpreta come libertarismo". In tal modo quel liberalismo che non condanna ogni forma di controllo statale per il suo potenziale oppressivo, ma che si richiama ai principi keynesiani o che assegna al potere pubblico una funzione, sia pur parzialmente riequilibratrice, in ambito economico, viene giudicato indegno del suo nome: una tesi più che legittima, ma chiaramente di parte. Quello che forse è il maggiore punto debole dell'antologia è comunque la sua stessa struttura: è divisa in tre sezioni, di cui la prima intende presentare testi del "liberalismo classico" (e a tal proposito non manca nell'introduzione l'ennesimo giudizio tranchant nei confronti di un grande autore liberale come Mill, considerato colpevole di scarso antistatalismo), la seconda è dedicata agli "anarchici" (e include tra questi Randolph Bourne, un intellettuale della Old Left americana) e la terza al "libertarismo", presentato hegelianamente dal curatore come sintesi di liberalismo e anarchismo. I liberali, infatti, secondo Iannello, "sono anarchici ma non lo sanno", gli anarchici "sono liberali ma non lo vogliono dire", e i libertari "sono liberali e anarchici consapevoli ed espliciti". La forzatura è evidente.
Giovanni Borgognone
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