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recensione di Giuffredi, M., L'Indice 1993, n. 9
Intorno alla metà degli anni venti il giovane Ernst Kris, allora funzionario del Museo di Vienna, specialista affermato nel campo della glittica e dell'oreficeria, meditava di abbandonare la storia dell'arte per dedicarsi alla psicoanalisi. Tuttavia il suo conflitto ebbe un esito imprevisto. Durante la preparazione di una monografia sullo scultore viennese del Settecento Franz Xavier Messerschmidt, Kris si rese conto che non avrebbe dovuto rinunciare n‚ alla psicoanalisi n‚ alla storia dell'arte, anzi, avrebbe potuto dedicarsi proficuamente a entrambe. L'artista che Kris stava studiando aveva realizzato nell'ultimo scorcio della sua attività artistica una serie di busti tradizionalmente interpretati come rappresentazioni delle passioni dell'anima. L'ipotesi fattasi sempre più consistente che in questo periodo Messerschmidt fosse "malato di mente" e che la sua opera portasse i segni della malattia, indusse Kris a sperimentare per la prima volta il metodo patografico affiancando all'analisi storica le recenti acquisizioni della psicoanalisi. Lo scritto che ne risultò, pubblicato nel 1932 nello "Jahrbuch" del Museo di Vienna, era una sorta di "dimostrazione" rivolta principalmente a un pubblico di storici dell'arte. Su questa base Kris procederà all'indagine psicoanalitica vera e propria comparsa nel 1933 sulla rivista "Imago", e nel '52 all'interno della raccolta "Ricerche psicoanalitiche sull'arte" (con il titolo "Uno scultore psicotico del XVIII secolo", trad. it. Einaudi, 1967 e 1988). Il connubio tra i due metodi che avevano inizialmente provocato la crisi di Kris venne suggellato dalla sua nomina, suggerita dallo stesso Freud, a direttore di "Imago", la rivista che si occupava principalmente delle relazioni tra psicoanalisi e cultura.
In questo suo essere un testo di transizione "La smorfia della follia" mostra l'esigenza, emergente in quegli anni, sia di ripensare i tradizionali confini tra una disciplina e l'altra, sia di misurare la possibilità di utilizzare il paradigma psicoanalitico al di fuori della clinica. Kris procede con ogni cautela domandandosi quali siano le scelte metodologiche e interpretative più adeguate. Come ha notato puntualmente Giovanni Gurisatti nella postfazione, per trovare la risposta a ciò che i busti di Messerschmidt sono, Kris si chiede innanzitutto ciò che essi non sono. Perché non possono definirsi fino in fondo n‚ ritratti, n‚ autoritratti, n‚ caricature? Perché, come vorrebbe la tradizione, non sono nemmeno esercitazioni "fisiognomiche", o meglio "patognomiche"? Perché infine sfuggono all'interpretazione, sono "inespressivi", e producono sullo spettatore un effetto perturbante? Le risposte a questi interrogativi portano Kris ad affermare che i busti rappresentano delle 'smorfie', "costellazioni mimiche" complesse, risultanti dalla combinazione di tratti singolarmente espressivi ma incompatibili tra loro. Perciò complessivamente i busti sarebbero inespressivi, in quanto difettano di quella reciproca interazione tra le singole componenti che permetterebbe di interpretarli come manifestazioni unitarie di stati d'animo. Quanto al significato della smorfia, poiché il geroglifico dei sintomi dipende dai processi inconsci soggiacenti, Kris invoca la psicoanalisi come l'unico sistema in grado di decifrarlo. A questo punto lo scopo del saggio è raggiunto, e Kris non si spinge molto oltre, limitandosi a portare soltanto alcuni esempi, brevi e generici. Ad esempio la funzione "apotropaica" delle smorfie è già rapportabile a un nucleo sessuale ma questo non è ancora specificato come paura della 'fellatio' e timore dell'evirazione. D'altra parte nella "Smorfia della follia" si dispiega tutto quel retroterra dimostrativo che verrà drasticamente ridotto nel testo psicoanalitico. Soprattutto quelle particolareggiate descrizioni delle "distorsioni" espressive che lasciano trasparire in filigrana insieme all'interesse per i momenti della storia del ritratto, della caricatura, della fisiognomica, l'attenzione all'espressione delle emozioni di Charles Darwin, un testo piuttosto diffuso tra i colleghi di Kris e che lo stesso Aby Warburg amava consigliare ai suoi allievi. "La smorfia della follia" può quindi leggersi come un'ampia glossa chiarificatrice del testo psicoanalitico, ma anche come testo autonomo che perdipiù svela generosamente le ragioni del suo farsi.
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