La riforma delle Banche Popolari ha colpito un sistema che per centocinquant’anni ha finanziato la crescita delle piccole e medie imprese che rappresentano il tessuto connettivo del Paese. Perché questo sistema è stato colpito in Italia e mantenuto altrove? A chi faceva comodo – magari in Europa – indebolire il nostro apparato industriale già messo a dura prova da dieci anni di crisi economica e dalla moneta unica? Fino all’arrivo dell’Unione Bancaria le banche popolari non hanno mai pesato sui contribuenti visto che la categoria risolveva i problemi al suo interno. Diversamente da quanto accaduto con le banche commerciali a cominciare dalla nascita dell’Iri negli anni ‘30. La riforma delle banche popolari è stata fatta con un decreto. Una procedura certamente anomala già condannata da diversi giudici. La scelta del governo Renzi precede di poche settimane la svolta della Bce che avvia il programma di acquisto di titoli di Stato in Europa. Il piano mette in sicurezza il debito pubblico italiano e consente allo Stato di risparmiare circa venti miliardi di interessi. Può sembrare uno scambio. Il sistema delle popolari non era una foresta pietrificata ma un universo in evoluzione che stava già disegnando una proposta di riforma. Perché il governo non ha dato tempo e modo di confrontarsi su questo progetto? Ora che le principali banche popolari non sono più popolari, il credito al territorio – col giusto criterio – non sarà più assicurato. Le banche dei grandi fondi punteranno tutto sul risparmio gestito, senza rischi. E le imprese che vorranno finanziarsi dovranno ricorrere al capitale di rischio. Chi potrà lo farà ma ai piccoli imprenditori cosa resta? )
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