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Il cinema come arte dell'invisibile. Oltre l'apparente paradosso, è questa la linea di ricerca che ispira l'ultimo libro di Ilaria Gatti, che riflette su autori e opere che hanno tentato di affrancare la narrazione cinematografica da influenze letterarie "classiche" incentrate sulla linearità della trama, sulla riconoscibilità immediata di certi simboli e metafore e sulla parola come vettore di significazione primaria.
La fonte d'ispirazione del libro è non a caso una scrittrice atipica come Virginia Woolf, che ha sempre rifiutato l'ovvio, addentrandosi nella ricerca di uno stile capace di rovesciare le convenzioni narrative, per dare voce a molteplici dimensioni dell'esistenza. Nel 1926 Woolf pubblicò su "Arts" il saggio The Cinema - integralmente riportato nell'appendice del libro - in cui lamentava la banalità o l'ingenuità della rappresentazione dei sentimenti attraverso figure retoriche visive o sguardi impostati in un certo modo, e viceversa esaltava le potenzialità del cinema come arte del non detto, che potrebbe utilizzare l'evidenza del reale per trascenderne i significati offrendo molteplici associazioni interiori a ogni spettatore.
Oltre la bidimensionalità delle immagini mute dell'epoca, Wolf auspica quindi l'ipotesi di una terza dimensione evocativa e soggettiva, non a caso simile alla sua ricerca letteraria in questo senso. Da questo spunto, Gatti elabora il concetto di sguardo interiore, capace di alludere all'invisibile, alle dimensioni meno evidenti del reale. A questa attitudine spesso corrisponde la discrezione della messa in scena, che non significa timidezza di sguardo, ma al contrario capacità di permeare nel profondo, attraverso l'estremo rispetto di ciò che si ha di fronte, evitando di manipolarlo eccessivamente ai fini della linearità narrativa e della comprensione immediata, come approfondisce anche Alessandro Cappabianca nella sua postfazione.
Su queste categorie di base, il libro compie un viaggio tra periodi e autori differenti della storia del cinema: dalle avanguardie storiche di Germane Dulac e Maya Deren, all'universo francofono di Margherite Duras, Chantal Aklerman e Agnès Varda; da Abbas Kiarostami e il cinema iraniano degli ultimi decenni ad autori sparsi che trascendono il quotidiano, in un insieme composito che vede Dreyer e Kaurismaki, Sofia Coppola e Sandrine Veysset, Mizoguchi e Sokurov.
Stimolante e ricco di spunti, in particolare rispetto alla femminilità di questo tipo di sguardo, il libro si pone come una sorta di ipertesto che invita a ridefinire i rapporti tra epoche, registi e generi, sulla base di un approccio particolare. L'unico rammarico è che in alcuni casi le analisi dei film citati rischiano di appiattirsi sulla semplice dimensione riassuntiva, con un minore approfondimento delle molteplici tracce di analisi e di confronto.
Michele Marangi
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