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Questo libro delude solo a metà, per quel tanto che l'anagrafe e la biografia degli autori devono concedere al tempo perduto. Ed ecco il lieve cedimento nostalgico per l'anno di cambiamento, con tanto di finale dentro le speranze dei giovani d'oggi per un futuro mondo alternativo, ancora possibile grazie alla "lezione del '68". Se poi si va a leggere, troviamo una serie di suggerimenti interpretativi che meritano di essere pienamente accolti da chi voglia fare storiografia di quell'anno e degli eventi che attorno vi si addensarono. Anche e soprattutto dal punto di vista del metodo, poiché molto dipende da come ci si accosta a un "oggetto" di studio ancora incandescente. Anzitutto, l'indicazione che il concetto di generazione resta la chiave di accesso al fenomeno, con la precisazione che la "particolarità" di quella generazione risiede nel fatto che essa portava con sé non solo i classici problemi dei giovani, ma anche quelli inediti di una società e di uno stato cresciuti in fretta. "Generazione della transizione", quella del Sessantotto fu al contempo erede dei malesseri di culture politiche in profonda crisi. Erano le culture della neonata repubblica: socialcomunismo e cattolicesimo politico. La scuola di massa fu il detonatore, ma gli autori riconoscono che certe qualità della futura élite del movimento studentesco si avvalsero di una scuola che negli anni sessanta "ha ancora una personalità, un prestigio, una serietà". Di riforme c'era quindi bisogno, non di rivoluzioni. Non convince l'idea che le "progressive liberazioni" restino l'insegnamento più valido oggi. Alla tensione utopica dovrebbe forse legarsi il senso del recupero di qualcosa che il capitalismo ingrassatosi con l'ideologia sessantottesca ha travolto. Se tutto è liquido, non lo potrà mai essere l'individuo umano. E se l'homo videns fosse figlio del Sessantotto?
Danilo Breschi
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