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La Chiusa manda in frantumi con pochi versi tutta una visione dell’arte che mira a “incellophanare” il senso dell’opera (ma anche quello della storia) in un discorso tecnico, critico o comunque già neutralizzato in una presa di distanza. Le crocifissioni, le guerre, le esecuzioni, le distruzioni, i soggetti sacri e profani dei quadri di Grünewald, Goya, Rembrandt, Antonello da Messina, ecc. vengono letti con sguardo terribilmente presente, mai estetizzante. L’osservazione di ciò che è rappresentato dall’arte come realtà, e non come opera creativa, fa da detonatore a una irresistibile comunione di senso tra opera e mondo. Non c’è spazio per una contemplazione (per quanto intelligente), se allo stesso tempo non è una contemplazione che genera interrogativi, risvegliando l'inevitabile responsabilità di ogni gesto artistico e di ogni interpretazione. Fuori da questa responsabilità, siamo semplici copisti dell’arte o sonnambuli della realtà.
L’osservatore-poeta aggiunge una coscienza presente o una presenza esatta, che parla in una determinata tensione e in un tempo adatto alla sua sensibilità,coinvolgendosi anche nell’errore («-e non ci saranno testimoni per le ali accartocciate/per le nostre gambe d’Icaro che annegano tra i muri-»).Il filo rosso delle ultime cinque poesie è il fallimento, per illusione o ignoranza: come ciechi «non dovevamo fidarci»; come costruttori-peccatori della Torre di Babele «asini da soma eravamo–non uomini: / solo ora lo sappiamo»;come testimoni della Passione «andavamo in tanti giocando azzuffandoci/come a una fiera di paese», astanti di un Signore che non abbiamo capìto, perché «in miniatura / tra noi Cristi in miniatura / chi lo vedeva chi»; come uomini tecnologici, «non sapeva il corpo / ch’era troppo pesante per il cielo»; come presunti dominatori della terra, «non sapevamo che solo la forca / sarebbe rimasta segnale».Scrivendo poesia, ci coinvolgiamo anche nell’errore: infatti la poesia attuale non è una gnosi. Cepollaro definisce tutto questo «la cecità morale e intellettuale paradossalmente denunciate dall’arte ‘visiva’…». Serve un punto di vista esterno: che in quanto tale è dis-umano, se non è lo sguardo di un Dio che rifiuta il non-sapere, in particolare nella Persona del Figlio-Lógos. Per esprimersi, bisogna essere dentro, dove non sappiamo il «il senso di questa distruzione». Ma per salvarsi bisogna essere una di tre cose: o Dio; o dis-umani, fuori, in una mostruosità da laboratorio, come il Principe di Sansevero e Mengele, consci del «senso» e del fine della «distruzione» chirurgico-alchemica; o aperti, dentro la scena, alla risposta ad alla risposta ad «un appello più alto», pronunciato da una lingua materna «che spreme il latte dalla capra, nella polvere». Anche la vocazione è impotente: la contrastano l’ignoranza e l’apatia dei sensi, come testimoniano le domande "non vedi?","non senti?". Non è retorica: sappiamo che non c’è Humanitas senza il sentire, e non è grossolano legarlo all’uso di sensi *fisici*.
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