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Un canzoniere può voler dire due cose: procurare un libro strutturato e accortamente ripartito; oppure accorpare poesie monotematiche, di solito di ispirazione amorosa. Con la sua quinta raccolta di versi, Giacomo Trinci (1960) suggerisce sin dal titolo che il suo canzoniere è del secondo tipo: un accorato dialogo con il fantasma amoroso della madre scomparsa, presenza onnipervasiva di cui talvolta i versi recuperano direttamente la voce, in forma di discorso riferito. Proprio la voce, modulata in canto, risulta essere l'eredità affettiva e corporea insieme che il figlio-poeta raccoglie e in qualche modo tramanda in queste pagine: "mi facevi cantare ed io cantavo / per far mostra di te che mi mostravi", ricorda Trinci quasi in apertura, inaugurando uno dei più tenaci fili che attraversano il libro: il tema del canto, appunto, come lascito sensibile del genitore e insieme come sortilegio o, più propriamente, incantesimo per scongiurarne la perdita: "canto per te che tu non vada / e resti nel tuo vento / in questi versi che respiro, e vivo". Così se a tratti la mancanza pare assoluta e immedicabile, altrove la poesia ritrova il tempo perduto e colma la distanza: il passato si trascina nel presente e la coniugazione verbale alterna l'imperfetto al presente, come in questi versi contigui: "io sorvegliavo da lontano il cuore / io veglio ancora quello che non muore", dove l'unica ipotesi di resistenza alla morte si incarna qui e ora, dal momento che "nessuna trascendenza ci redime", secondo quanto afferma la voce del tu. Il miracolo, semmai, è che la madre assente, a tratti, è in grado di rivivere in ogni cosa ("in un albero un fiore una formica / un bambino testardo che non molla"), compreso chi scrive e ne costituisce l'eredità: "oppure che la mia sopravvivenza / serva a qualcosa a farti rivivere / in me qui dentro". I quasi-sonetti di Trinci, che talvolta dispiegano una cantabilità e una trama fonica da melodramma (decasillabi ed endecasillabi con rime e rime interne, specie in chiusa, che trattengono la memoria dei Versi livornesi di Caproni, parimenti tormentati dall'ossessione materna), diventano dunque un tentativo di rispondere e di ridare voce, tematicamente e quasi mimeticamente, a chi la voce gli imprestò, gli diede in dono.
Massimo Gezzi
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