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Questo romanzo ha inizio «poco lontano dal luogo dove gli angeli si posarono per la prima volta sulla terra». Era una collina deserta, senza movimenti, se non talvolta quello di uno «scarabeo che passava lento come una pallottola esausta». E lì si incontrarono tre angeli, belli e maestosi, con due esseri sperduti e poco raccomandabili dell’Irlanda, Patsy Mac Cann e sua figlia Mary, circondata da «ciarpame e carabattole». Presto li troveremo che vagabondano insieme, e il loro vagare attira le avventure che compongono I semidei.
Forse nessuno scrittore del nostro secolo ha avuto in dono una naturalezza paragonabile a quella di James Stephens nel trattare il prodigioso. Stephens sembra raccontare sempre una piccola cronaca di tutti i giorni: e poi il lettore si accorge che si trova in mezzo a creature variamente sovrannaturali, sospeso fra cieli e inferni, provvisoriamente calcando il suolo della terra, «bella come il suono di acque scroscianti». Ma tutto questo ci appare, nella sua stranezza, del tutto familiare. Così gli angeli, dopo aver riposto in un fagotto le loro ali e le loro vesti sontuose, per non dar troppo nell’occhio, entrano subito nelle vene della realtà terrestre, finché quella realtà tornerà a essere «più esasperante e incomprensibile di qualsiasi prodigio». Un lieve soffio di comicità percorre ogni anfratto di questo libro, si mescola ai numerosi apologhi, alle avventure intrecciate dei protagonisti. Ma non è una comicità irridente. C’è in essa qualcosa di affettuoso e saggio, come volesse soprattutto avvertirci che tutto quello che accade qui da noi non è che l’ultima variante di una vecchissima vicenda cosmica di amore, odio, disprezzo, bramosia, avarizia, tenerezza e inganno. Ancor più delle storie, che tendono a essere sempre le stesse, conta l’arte del raccontarle. Accade così a Stephens di venire a somigliare a un certo vecchio del Connaught di cui qui si parla: «imbastiva una storia con niente, e tu stavi lì ad ascoltarlo a bocca aperta con la paura che tra poco sarebbe finita, e magari era soltanto la storia di una gallina bianca che aveva fatto un uovo scuro! Ti raccontava una cosa che sapevi da tutta la vita, e tu credevi che fosse nuova di zecca. Nel cervello di quest’uomo non c’era vecchiaia: è questo il segreto».
I semidei è del 1914
(scheda pubblicata per l'edizione del 1985)
scheda di Cataldi, M., L'Indice 1986, n. 3
Questo lungo racconto, in cui i protagonisti si fanno narratori di storie, incomincia ai piedi di una deserta collina, "la porta del paradiso, dell'inferno e del purgatorio". Qui si posano tre angeli, Finaun, Caeltia e Art (nomi irlandesi, ma "più di ottocento anni fa un santo famoso informò il mondo che la lingua parlata in cielo era il gaelico, l'idioma più bello che esista"). Essi si imbattono nello stagnino girovago Padraig Mac Cann e in sua figlia Mary, e con loro spontaneamente si accompagnano; perché angeli e girovaghi sono simili e " il loro concetto del bene e del male coincideva quasi perfettamente". Gli incontri, le piccole avventure, le storie che si raccontano punteggiano la vicenda che ha lieto fine: la gioiosa unione dell'essere maschile e femminile, del divino e dell'umano, di fantasia e realtà. Il lettore italiano, che aveva scoperto la dimensione magica dell'Irlanda nel capolavoro di Stephens, "La pentola dell'oro" (Adelphi, 1969), ritrova in "I semidei" molte delle caratteristiche dell'arte di narrare di questo amabile dublinese. Stephens (1880? - 1950) fu un nazionalista appassionato, un poeta, un abilissimo "storyteller". Ciò che anche qui più si apprezza è l'ironica naturalezza con cui sa trattare il prodigioso, nel solco di un'antica tradizione narrativa che ha per tema centrale il dissolversi dei confini tra il mondo degli uomini e gli altri mondi.
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