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Dopo gli ultimi grandi teorici, da Keynes a Sraffa, la teoria economica sembra essersi irrigidita in un’Ortodossia che pochi vogliono mettere in questione. Da una parte si applicano tecniche di analisi sempre più sofisticate, dall’altra si dà per scontato che l’èra delle grandi proposte teoriche sia chiusa per sempre. Ma la dottrina economica, al tempo stesso, ha provato in questi anni, da una parte, al livello empirico, di non riuscire a prevedere alcunché dei processi in corso; dall’altra, al livello speculativo, ha mostrato di usare come elementi indiscutibili categorie che sono invece peculiari concrezioni storiche. C’è dunque del marcio nel regno degli economisti...
Questo libro di Alvi, per la sua incisività polemica, farà molto discutere. Qui non solo si svela la pochezza e l’inadeguatezza di una certa impostazione dominante del pensiero economico, che continua pervicacemente a proporsi come «un’imitazione fallita delle scienze naturali», ma si rivelano altre vie di quel pensiero che erano state abbandonate frettolosamente e oggi potrebbero tornare a rivelarsi preziose, si tratti della scuola storica tedesca o di Sombart, di Polanyi o di Veblen, di Simmel o di Sorokin, di Perroux o di Adriano Olivetti (del quale viene rivendicata, con argomenti nuovi, l’esperienza di Comunità). E la trattazione è sinuosa, aforistica, intrecciata con quei fatti della storia e della cultura che gli economisti ortodossi sembrano dilettarsi a ignorare.
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