È tacita convinzione comune, tra chi vive la scuola dall'interno, che tra le cause del degrado e della cosiddetta "emergenza educativa" in cui ci troviamo adesso in Italia (e non solo) ci sia il ruolo sproporzionato della pedagogia rispetto alle competenze disciplinari. Viene da pensare che tale assunto sia vero quando si riprende in mano l'aureo pamphlet di Lucio Russo, Segmenti e bastoncini; La scuola che vorrei, invece, pur non mostrando del sistema scolastico odierno un quadro meno apocalittico, riconcilia almeno con la pedagogia il lettore sospettoso, mostrando come questa disciplina possa contribuire a individuare, e forse a sanare, i danni inferti dall'ideologia, dalla politica e anche dalla pedagogia stessa. Questo spiega perché a recensire un libro a tratti tecnico non sia un pedagogista, ma solo un lettore che ha vissuto la scuola dall'interno, professando una materia (il latino) che nel libro è citata solo una volta e di sfuggita. L'aspirazione del recensore è che il libro venga letto dalle molte altre persone preoccupate come lui per la scuola, e che le aiuti a uscire dai luoghi comuni e a gridare finalmente che il re è nudo; basti una frase tratta dalla prima pagina dell'introduzione: "Il grande equivoco della scuola democratica è stato di pensare che distruggendo le basi della cultura tradizionale si sarebbe permesso a molti di raggiungere i vertici dell'istruzione". La scuola che vorrei darà sicuramente fastidio a quanti non sono disposti a riconoscere e affrontare questi problemi, che Scotto di Luzio analizza con competenza e chiarezza in cinque agili capitoli. Prima di tutto, egli fissa il punto di svolta non alla fine della seconda guerra mondiale, come affermato dai manuali di storia dell'istruzione, ma negli anni trenta (e ancor prima in America), vedendo non tanto nella democrazia, quanto nella società di massa l'elemento che impone la riforma, conclusasi con l'erezione del dogma della "scuola unica" e l'attuale perdita di senso causata dal privatismo ("La scuola si riduce a un affare totalmente privato. Perde la capacità di fornire simboli espressivi all'agire collettivo e dei singoli"). Nonostante il titolo, La scuola che vorrei è più un libro di storia che un manifesto per il domani. Anzi, forse proprio su questo punto lascia il lettore un po' deluso, quando si arriva alle pagine del Finale laico e liberale. L'autore propone di "liberare la scuola dalla tirannia dei giovani" e da quella pedagogia che antepone metodologie e burocrazia ai contenuti disciplinari e al discorso su sacrificio e autodisciplina. La scuola dovrebbe invece mirare a "coltivare il giudizio" dei più giovani attraverso la continua rielaborazione di un canone culturale condiviso. Il finale ex abrupto rende legittimo il dubbio se l'autore pensi che la sua idea sia realizzabile o che debba essere invece annoverata tra le pie illusioni. Da tutto il libro si capisce però che essa, anche se orientata solo verso la scuola, non potrebbe essere attuata senza la partecipazione della politica, della cultura, della società, delle famiglie e degli insegnanti. La scuola che vorrei non lascia però molto spazio alla speranza, almeno a mio avviso. Dal momento che "la scuola come apparato burocratico attorno al quale si organizzano gli interessi di milioni di persone occupa una posizione non aggredibile", la conclusione forse applicabile anche a questo punto è che "indietro non si torna". Purtroppo. Ermanno Malaspina
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