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Anno edizione: 1990
Anno edizione: 2014
Questo lungo racconto è una «scheggia» sanguinosa del terrore rosso in Siberia, ai tempi di Lenin. Scritto nel 1923, è apparso in Russia solo nel 1989, sulla stessa rivista («Luci della Siberia») che più di sessant’anni fa lo aveva rifiutato. E si capisce perché: con impressionante vigore narrativo Zazubrin «accumula una quantità di orrori assolutamente inconcepibile su una così piccola tela», come riconobbe subito Pravduchin nella sua prefazione-fantasma a La scheggia, che rimase anch’essa inedita. Ma il punto decisivo è che l’orrore viene qui raccontato dalla parte di chi lo commette, un cekista che da taglialegna teme di poter diventare egli stesso una delle schegge che inevitabilmente «saltano quando si abbatte il bosco», come dice un sinistro proverbio russo. La narrazione è una sequenza di atrocità in nome di «Lei» («Lei» è la rivoluzione), che poi si trasforma in una ridda di incubi, deliri, ebbre riflessioni nella mente del protagonista, ormai incapace di sostenere il suo ruolo di carnefice. La potenza del racconto, che ricorda Babel’, e l’unicità della testimonianza fanno di questo breve libro una delle più memorabili scoperte fra i molti testi disseppelliti in questi anni in Russia.
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Ciò che colpisce fin da subito è la cruda, puntuale, descrizione delle esecuzioni di massa: i bolscevichi procedono nella loro sanguinosa marcia verso il compimento della Rivoluzione. In un tetro sotterraneo, a cinque a cinque, i "nemici del popolo" vengono assassinati con un colpo alla nuca. Nudi, inermi, tremanti, gli esecutori hanno il tempo di vederli ad un passo dalla morte, di cogliere di ciascuno l'ultimo segno di umanità, prima che la vita li abbandoni e diventino solo corpi, la cui materialità disgusta: sangue, sudore, feci. Non vi sono colpe da espiare: è sufficiente essere considerati "nemici di classe". E il cekista che sovrintende alla macellazione, dopo aver saputo dell'uccisione del proprio padre disposta da un amico d'infanzia, d'un tratto, cede di schianto. Egli stesso, con la mente ormai obnubilata, sarà destinato all'arresto. Un testo che comunica disagio e una distinta percezione di tragica insensatezza.
Lettura indispensabile per comprendere alcuni degli orrori dell'Unione Sovietica. Zazubrin ci immerge nei sotterranei bui e sanguinosi della lotta alla controrivoluzione, illuminato da una conoscenza reale e nefasta. Dissero che non aveva capito, non vide mai pubblicato il suo scritto. Un racconto prezioso (e dolorosissimo).
Questo racconto lungo apparve nella Russia di Gorbaciov solo nell'89, dopo sessant'anni di censura e rimozione. Zazubrin fu un rivoluzionario "doc", bolscevico di estrazione contadina, partigiano nell'Armata Rossa, scrittore fedele ai canoni del realismo sovietico, infine funzionario del partito di Lenin fino al 1923, anno in cui scrisse appunto la novella "La scheggia", cadendo così in disgrazia presso l'apparato di partito. Accusato di "non aver compreso le strade e i metodi dell'edificazione socialista", non riuscì mai a pubblicare questo testo, che adesso leggiamo tanto più increduli e angosciati in quanto sappiamo provenire da fonte di indubbia fede e fedeltà comunista. Dice un cinico proverbio russo che "le schegge saltano quando si abbatte il bosco", e appunto di queste schegge, delle migliaia (milioni, sappiamo oggi) di vittime innocenti delle rivoluzione sovietica ha scritto Zazubrin, disperato e cosciente del tradimento cui "lei" ( la rivoluzione, appunto, come viene definita nel racconto) ha costretto i suoi adepti. Andrej Srubov, protagonista della storia, porta nel suo nome una condanna: "srubit" significa in russo "tagliare, abbattere", e Srubov è destinato infatti (come presidente della Ceka, la commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio) a rivestire il ruolo di boia, di carnefice, che decide della vita e della morte di centinaia di persone. Sarà proprio la sua cieca ostinazione, la sua tormentosa ossessione rivoluzionaria a fare di lui una vittima predestinata. La macchina inarrestabile del potere, cui tutto è permesso, tutto è dovuto, maciullerà anche lui, riducendolo a una delle tante schegge già saltate nel taglio del bosco. Si può forse rimproverare al racconto un certo gusto truculento per le immagini forti, una certa roboante retorica delle metafore: rimane tuttavia grande il suo merito di averci fornito un documento spietato e sincero su una fase storica di cui sappiamo ancora troppo poco.
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