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Cinquantenne, nato a Bordeaux – come a dire, dentro il calice di un grande rosso –, Laclavetine immerge l'essere umano nel vino come il chimico la cartina di tornasole nel preparato da testare. In dieci racconti limpidi e accattivanti, divertenti anche quando amari, il vino funziona da reagente e colora un'umanità scelta tra la più ordinariamente frustrata e fragile di una tinta scura, il rosso cupo e violaceo del cabernet sauvignon del Médoc. Scorre rosso sangue, in molte storie: sangue vero, come in Amici, ingegnosa variazione sul motto in vino veritas, che si risolve nell'allucinato autodafè cui si sottopone Joseph, determinato a conoscere la sua vera natura degradata ubriacandosi con il diabolico "vino di Noè" imbottigliato dallo stregonesco bisnonno; sangue iperrealistico in Mosche sommerse, sorta di "tranquillo weekend di paura" nel quale Rémi, solitario uomo massa aspirante suicida, complice un rosso avvelenato (destinato in origine a se stesso), ristabilisce l'ordine da ossessivo in cui voleva calare la propria morte, uccidendo viceversa la coppia di stolidi giovanissimi ladri che irrompono nel suo buen retiro; sangue metaforico è la chiazza di vomito vinoso che dà fuori, dilapidando la propria umanità fasulla, l'io narrante di Djinn, mezzo scrittore mezzo fallito di mezz'età, ripreso in una riuscita soggettiva che rende plastico il senso dell'abisso in cui può precipitare un'intera esistenza. Mai consolatorio, il vino di Laclavetine riscatta soltanto il Lui e la Lei dell'ultimo racconto, Paradiso, dialogo tra una coppia di tracannatori cirrotici passati a miglior vita, per nulla pentiti di essersela goduta sbevazzando, alla faccia dei tanti moralisti benpensanti.
Silverio Novelli
Paolo Paci, Cuochi, artisti, visionari. Storie di viaggio da Milano a St. Moritz, pp. 270, € 14, Feltrinelli, Milano 2004
Paolo Paci, giornalista e viaggiatore, scrive un libro denso e coinvolgente di difficile definizione. All'inizio viene presentata al lettore una mappa dettagliata dell'itinerario percorso a partire da Lecco, lambendo la Valtellina e passando per la val Bregaglia, fino a giungere all'alta Engadina elvetica. Le prime pagine chiariscono che il viaggio nasce da una scelta di riposizionamento sul mercato da parte dell'editoria per la quale Paci lavora. Le riviste di viaggi e turismo non tirano più; i lettori vacanzieri sono stati dappertutto. È giunta l'ora del giornalismo enogastronomico. Dal mondo alla regione; dal globale al locale; dall'esotico al tipico. E Paci parte da Milano verso nord: assapora il quartirolo in Valsassina; cerca gli agoni nel Lario perché quei "pesciolini argentati", grigliati e messi sotto aceto in barilotti di legno, si trasformano in prelibati missoltini; assaggia i caviadini, burrosi biscotti tostati; beve il rosso sfursàt nei crotti della Valtellina; e via così, forchette in resta e bicchieri alla mano. Tra descrizione di luoghi, incontri e dialoghi con produttori e osti e scandagli lanciati nella profondità della storia locale (bella quella della pietra ollare di Piuro), l'autore informa con precisione e intrattiene con brio e ironia. Ma ci sono un paio di "però" che fanno del libro qualcosa di diverso da un'aggiornata appendice del Ghiottone errante di Paolo Monelli. Il primo sta nell'amore di Paci per la montagna e, in particolare, per le montagne che si innalzano come quinte lungo i lati delle valli percorse. Paci, viaggiando, racconta di se stesso giovane, alle prese con scalate e arrampicate. Questo racconto di sofferte e liberatorie ascensioni costella tutto il libro. Nella seconda parte del testo, quando Paci su commissione di una casa editrice continua il viaggio in val Bregaglia per ricalcare le orme del grande pittore divisionista e simbolista Giovanni Segantini, anima anelante l'assoluto, che in Engadina decise di fermarsi dopo una vita randagia, diventa chiaro che il controcanto memorialistico delle passate ascensioni mira a evolversi in un'ascesi più spirituale. Messe da parte enogastronomia e storia locale, qui Paci cerca, attraverso varie testimonianze, di empatizzare poetica e sguardo dell'artista che fu rapito dalla luce dei monti engadinesi e trasforma il movimento lineare del viaggio in un'inquieta oscillazione tra natura e umanità. Paci compie la sua riuscita prova d'iniziazione all'esercizio della parte di sé più vibratile e visionaria, che la consonanza spirituale con Segantini gli ha fatto portare alla luce, liberata da strati di quartirolo, missoltini e pizzoccheri.
S.N.
Enrico Remmert e Luca Ragagnin, Elogio della sbronza consapevole. Piccolo viaggio dal bicchiere alla luna, prefaz. di Bruno Gambarotta, pp. 213, € 13, Marsilio, Venezia 2004
Improntata alla logica del "mettici dentro tutto" (secondo Bruno Gambarotta, prefatore divertito e divertente), questa alticcia scorribanda citazionistica nel bere tanto e nel bere (mai) troppo (che riserva un piccolo spazio anche ai "moderati", in una logica da maggioritario secco), è stata allestita dai due scrittori torinesi con una vitalistica allegria che si trasmette tutta al lettore, annettendolo a una variegata famiglia di illustri e meno illustri beoni: in gran parte scrittori, dall'antichità dei "precursori" (i classici greci e latini, ma anche gli illuminati cinesi) fino alla contemporaneità di minimalisti (Bret Easton Ellis) e postmoderni (DeLillo); in minima parte, attori, cantanti, signatures improbabili da forum elettronico (Il Sudato), apocrifi (segnalati dalla glossa "forse", che segue la firma), personaggi dei cartoon (il "mitico" Homer Simpson, con una delle migliori battute del libro), gli autori stessi che non rinunciano al piacere di miscelarsi con gli ingredienti di questo odeporico cocktail; il quale, oltre a viaggiare attraverso il tempo, viaggia nello spazio, battendo tutti gli angoli del pianeta, dall'Italia di Italo Calvino alla Russia di Boris Pasternak, dalla Nigeria di Amos Tutuola al Giappone di Karl Taro Greenfeld. La grande sgargarozzata, pur eleggendo il vino a bevanda d'elezione, non trascura birra e vodka, whisky e whiskey, rum e micidiali cocktail: il profluvio di alcolici si condensa in un mondo "shakerato" (come dicono gli autori), euforico, triste, sentenzioso, buffonesco, svagato, svaccato, smagato ("consapevole" dell'eccesso, appunto), ritagliato tra le pagine dei libri (romanzi, racconti, poesie, un testo inedito – quello di Dario Voltolini – in realtà già edito), talvolta colto al volo in insegne, canzoni, dichiarazioni, invenzioni e presentato dagli scritti estrosi, leggermente ebbri, che i due autori antepongono di volta in volta a ogni capitolo tematico. Insomma, una godibile "misticanza" neobarocca attraversata da una vena "patafisica e situazionista" (Gambarotta), che ricolloca nel teatro del mondo lo spirito oltranzista del folletto dionisiaco.
S.N.
Lilia Zaouali, L'Islam a tavola. Dal Medioevo a oggi, trad. di Egi Volterrani, pp. 221, € 14, Laterza, Roma-Bari 2004
Ma insomma: gli islamici poterono, potevano, possono, potranno mai bere vino? La vulgata vuole che ai seguaci di Maometto sia stato vietato, così come vietati sono la carne di maiale e il sangue degli animali macellati. Chi scrive è andato subito a cercare informazioni sulla faccenda in questo rapido ma succoso viaggio tra le abitudini alimentari dell'islam, scritto da un'insegnante universitaria nativa di Sfax, in Tunisia, la quale si divide tra Alessandria (quella italiana), dove insegna, e Parigi. Le interpretazioni oscillano, fatto sta che nel coranico Giardino delle delizie scorrono fiumi di vino, oltre che d'acqua e di latte. Sembra che il tabù del vino colpisse più i musulmani arabi che i non arabi e che siano sempre esistiti i partiti del pro e del contro. In ogni caso, anche chi dice di sì al vino, ne raccomanda un uso misurato. Smisurate, invece, dovevano essere la raffinatezza della cultura e la cura dell'igiene alimentari, l'arte del banchetto, la sottigliezza del galateo a tavola (quella dei potenti e dei ricchi, naturalmente), la ricchezza degli ingredienti a disposizione, nella grande, cosmopolita e – in tema di religione – tollerante Bagdad dei calliffi abbasidi (750-1258), studiate da Zaouali a partire dai ricettari medievali che fiorirono in quell'epoca. Sul maestoso sincretismo delle culture preislamiche (araba, berbera e bizantina, cioè greco-romana) si innesta la nuova codificazione arabo-musulmana che, in campo culinario, ha un occhio di riguardo per le conoscenze e le abitudini persiane, modello di prestigio. L'amore per elementi contrastanti, riuniti in ossimorico matrimonio, come l'aceto e il miele, o per le fortissime speziature dei cibi, deve molto alla tradizione della Roma antica. Ma la creatività della cucina abbaside amplia e arricchisce il ventaglio di ingredienti e preparazioni: carni, pesce, pasta (non lievitata), verdure (spiccano le melanzane) sono elaborate in svariate pietanze salsate e speziate, perseguendo l'idea di un approccio al cibo in cui, prima ancora del gusto, vengono stimolati la vista e l'olfatto. L'espansione dell'islam verso occidente determina, a partire dal XIII secolo, una prima differenziazione della cucina degli arabi d'Oriente da quella degli arabi d'Occidente (maghrebini, andalusi, siculi): questi ultimi "brevettano" il cuscus, che dura ancora oggi. Come durano, spiega l'autrice, una trentina di ricette (su mille e più), depositarie dei sapori medievali. L'islam culinario moderno, meno speziato e meno ardito (scompare il connubio miele-aceto), ha ormai partorito tante cucine nazionali, orgogliose della propria identità ma in parte vittime dell'omogeneizzazione internazionale del gusto. Bagdad ha subito bombardamenti anche in cucina. Il diffusissimo pomodoro, americano, ha il colore del sangue. Almeno, non uccide.
S.N.
F4
Torgny Lindgren, La ricetta perfetta, ed. orig. 2002, trad. di Carmen Giorgetti Cima, postfaz. di Luca Scarlini, pp. 223, € 13,50, Iperborea, Milano 2004
Che Torgny Lindgren sia stato un cuoco abilissimo, in grado di adoperare ogni ingrediente per La ricetta perfetta in modo magistrale, non c'è alcun dubbio. Basta scorrere le prime righe per rendersi conto che ci troviamo davanti a un romanzo superbo. E con gli ingredienti sapientemente dosati dal vecchio che provvede alla preparazione di cibi prelibati, Lindgren costruisce un romanzo come fosse un piatto dalle antiche tradizioni, dalla ricetta segreta e garbata, dallo squisito esito felicissimo che emana profumi che ricordano l'essenza della vita. Non è facile parlare di un romanzo importante come questo, un po' come quando, storditi da un innamoramento devastante, non si riesce ad avere l'obiettività necessaria per capire chi si ha di fronte: amiamo l'oggetto del nostro amore senza sapere perché. Bisogna lasciar decantare il libro, al pari di un vino invecchiato, è necessario stappare la bottiglia e versarne lentamente il contenuto in una caraffa, per permetterne la decantazione e l'ossigenazione.
La ricetta perfetta è un romanzo fatto di personaggi, di attori dal ruolo più o meno rilevante, intorno ai quali si costruisce la storia di un piatto, la pölsa, o della vita "più o meno altrettanto meravigliosa ovunque la si viva". Una vita dunque amata e rispettata, nel suo significato più ampio e più profondo, vista con occhi diversi in ogni momento, come per esempio dal giovane Torgny Lindgren del Västerbotten, sì, proprio lui, in preda a un accesso di tisi, che non sarebbe mai diventato grande ma che provava gioia folle di esistere, per quel poco che gli rimaneva da vivere. Oppure osservata dal gerontologo che deplorava la sua infelice scelta professionale, assumendosi i timori della vecchiaia e integrandoli nella sua vita. Per non parlare del simmetrico Bertil, che teneva sempre gli occhi aperti, privo di quella "scissione interna connaturata a tutti gli esseri umani".
Un ultracentenario cronista di una sperduta località del nord della Svezia riprende a scrivere un trafiletto interrotto più di cinquant'anni prima da una perentoria quanto tassativa lettera del caporedattore del suo giornale, che lo taccia di impostore e bugiardo. Sopravvissutogli, il dignitoso uomo, che non si era lasciato sconfiggere dalla vecchiaia, riprende il blocco a spirale così come lo aveva lasciato e cerca di colmare il vuoto delle parole non scritte. Inizia a ridisegnare quei tratti appena abbozzati del nuovo maestro Lars Högström, uscito immune dalla tubercolosi, del criminale nazista Martin Bormann - Robert Maser sfuggito all'appuntamento con la giustizia e di tutte quelle figure memorabili che popolano il romanzo.
Il denominatore comune è la ricerca della perfetta preparazione della pölsa, della consolazione, del conforto o balsamo della vita, come suggerisce il remoto etimo della parola. Il balsamo della galantina fa da contrappunto al pungente odore di morte di cui è impregnata ogni parola. Ed è sulla tensione tra questi due poli che si sviluppa la narrazione, in un pericoloso gioco di equilibrismo tra realtà e fantasia, ma con la consapevolezza che non bisogna mettere "fantasia contro verità come se fossero contrapposte, come se fossero in contraddizione, come se la fantasia non fosse un prodotto della realtà".
Margherita Sermonti
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