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1998
1 gennaio 1998
132 p.
9788876943072

Voce della critica





Bonafin, Massimo (a cura di), Il romanzo di Renart la volpe, Edizioni dell'Orso, 1998
Belletti, Gian Carlo (a cura di), Rolando a Saragozza, Edizioni dell'Orso, 1998
Lecco, Margherita (a cura di), La visione di Tungdal, Edizioni dell'Orso, 1998
di Heisterbach, Cesario, Sui dem•ni, Edizioni dell'Orso, 1999
recensioni di Meliga, W. L'Indice del 2000, n. 04

Da qualche tempo abbiamo una nuova collana di alta divulgazione dedicata alla letteratura del Medioevo. Non si può che esserne contenti, soprattutto a giudicare dai titoli finora apparsi, che toccano diversi domini linguistici (francese, provenzale, spagnolo, latino), diversi generi letterari e ambiti culturali dell'Occidente medievale. Si tratta anche di titoli insieme nuovi e importanti, mai pubblicati con traduzione italiana o comunque in una versione fedele al testo originale.
Questo è particolarmente vero per il Roman de Renart, la cui unica traduzione esistente prima di questa è piuttosto un'infedele rielaborazione in prosa. Ora il Renart è un'opera molto interessante, anche se la sua comicità a volte un po' elementare può infastidire i lettori più raffinati. Si tratta di una specie di epopea animale, che racconta la lunga rivalità fra l'astuta volpe Renart e il lupo Isengrin, a causa soprattutto della moglie di questi Hersent: un "triangolo" consentito dal fatto che il sostantivo per "volpe" è maschile in francese, nella forma antica "golpil", qui usata (Renard è appunto un golpil) - e continuerà a esserlo anche in quella moderna, "renard", segno tra l'altro non da poco del successo del Roman che lo vede protagonista. Accanto alla volpe e al lupo vi sono poi altri personaggi animali, come il re leone (Noble), il gatto (Tibert), l'orso (Brun), il gallo (Chantecler) e altri ancora. Bisogna anche precisare che Roman de Renart è in realtà un titolo collettivo, sotto il quale si raccolgono una trentina circa di racconti (o branches) - non tutti dello stesso autore e della stessa epoca (le prime branches, dovute a un certo Pierre de Saint Cloud, sono da collocare forse intorno al 1175-1180) - incentrati ciascuno su un episodio. Più fattori concorrono a formare il sapore tutto particolare del Renard: elementi classici della favola animale (di tradizione greco-romana, poi ripresa nella letteratura mediolatina in epoca precedente alla composizione del Renard), temi folklorici (instabilità della distinzione uomo/animale, totemismo, cultura "carnevalesca") e una spesso felice e divertente mescolanza di aspetti umani e di caratteristiche animali nei protagonisti. Il tutto indirizzato - al di là del piacere della fabula - verso una cospicua satira sociale, grazie anche all'uso diffuso della parodia (parodia di generi e motivi della letteratura alta, specialmente delle chansons de geste e dei romanzi cavallereschi). Una satira che non risparmia nessuno o quasi, dal momento che colpisce il clero (specialmente quello basso), la nobiltà ma anche i contadini, e dalla quale sembra che si salvino solo i ceti borghesi e urbani. E che dietro al Renart ci possa essere la nuova classe mercantile concorderebbe con l'immagine che dal romanzo esce di una società dinamica e conflittuale, anti-aristocratica e anti-clericale, dove l'astuzia (qualità certo non cavalleresca) di Renart è virtù in definitiva positiva. Il collegamento è certo tutto da verificare - lo osserva lo stesso curatore - anche perché non sempre il comico e la satira sono sinceri né progressisti. Ipotesi per ipotesi, dietro al Renart ci potrebbero stare altrettanto bene - e comunque non certo contro una visione borghese, o meglio pre-borghese, del milieu degli autori e/o del pubblico - i nuovi intellettuali delle scuole e delle università, i chierici disincantati, abili nelle dispute dialettiche e forti del loro ingegno come la volpe. Se poi fosse dimostrabile l'identificazione, suggerita più di un secolo fa, del Pierre de Saint Cloud con un prete dell'Università di Parigi, condannato per eresia all'inizio del Duecento quando era in età già avanzata, l'identificazione dell'origine socio-culturale del nostro testo sarebbe cosa fatta.
Ma anche gli altri titoli della collana toccano ambiti non propriamente ovvi del Medioevo letterario. Il Rolando a Saragozza occitanico, anonimo e di datazione incerta (si va dalla fine del XII secolo all'inizio del XIV), è un'opera eroicomica - più comica che eroica, nota il curatore - che svolge una sorta di controcanto, stilistico e ideologico, dell'epica "seria". La Visione di Tungdal è una delle migliori realizzazioni del genere del viaggio/visione nell'oltretomba, scritta probabilmente verso la metà del secolo XII da un monaco irlandese a Ratisbona e poi oggetto di numerosi volgarizzamenti, specialmente in lingua d'oïl (qui ne sono pubblicati due). Uno di quei "precursori di Dante" (per dirla con il titolo di un vecchio libro di Alessandro D'Ancona) di cui è importante la lettura, proprio anche per comprendere il significato della novità della Commedia. Di Cesario di Heisterbach infine abbiamo già parlato (cfr. "L'Indice", 1999, n. 9).
La collana ha un titolo suggestivo, in parte obbligato (dato
il nome dell'editore) ma non senza un certo esprit: "Gli Orsatti. Testi dell'Altro Medioevo". L'orsatto, si sa, è il piccolo dell'orsa, che secondo i bestiari medievali nasce informe e ottiene le proprie fattezze grazie alle leccate della madre. Nome dunque azzeccato per una collana di letteratura medievale. Ma anche il sottotitolo ha la sua importanza, con un richiamo a un altro Medioevo, dei cui te-sti la collana sarebbe divulgatrice. Di quale Medioevo si tratti, il primo risvolto di copertina ci fornisce qualche suggerimento con una citazione da un articolo di Italo Calvino (in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, 1980), un commento-recensione all'Anatomia della critica di Northrop Frye. Alla fine del suo scritto (è il brano riprodotto nel risvolto), Calvino proponeva al lettore - ma soprattutto al critico letterario - la nozio-ne di "biblioteca", intesa come sistema di opere, diverso per luoghi ed epoche, che si organizza attorno a un "centro" canonico a cui corrisponde un "fuori" apocrifo, portatore di diversità o di novità rispetto al canone, e aggiungeva la sua preferenza per quest'ultimo.
È dunque in questo aspetto che andrà probabilmente cercato
il senso di quell'altro presen-
te nel sottotitolo della colla-
na, e gli Orsatti finora pubblicati rispondono più o me-
no tutti a temi, a generi lette-
rari, a modalità di scrittura
che possono oggi apparirci appunto altri rispetto a un Medioevo più "istituzionale",
al Medioevo del "centro" culturale.
Devo dire però che non sono del tutto d'accordo con quest'uso tendenzialmente assoluto del concetto di alterità. Se la nozione di biblioteca e delle sue articolazioni, introdotta da Calvino, è del tutto condivisibile (anche se non sempre nella dichiarata preferenza per il "fuori"), mi sembra tuttavia che, se di alterità del Medioevo conviene parlare, questa riguardi tutta la cultura medievale, tutta la "biblioteca", con le sue tensioni fra "centro" e "fuori". In questa prospettiva, un'opera non sarà mai collocabile tutt'intera al "centro" o "fuori", e d'altra parte "altri" potranno risultare per noi proprio certi aspetti del "centro", i cui testi risultano talora irrimediabilmente perduti per la cultura e la sensibilità moderne. In altre parole, si tratta di verificare quanto davvero aspetti ormai codificati dagli studi letterari e filologici, come la parodia e il comico, alcuni temi folklorici, il realismo e il meraviglioso fossero effettivamente altro per coloro che ascoltavano o leggevano quei testi. Anche perché, a quanto si sa, spesso autore e/o pubblico del "centro" e del "fuori" coincidevano, e soprattutto perché testi che, in una certa epoca e per i detentori del potere culturale, dovevano stare certamente "fuori", sono poi passati largamente "dentro", e con vistoso successo. Senza contare il problema - che pure ha contato moltissimo - della selezione e della trasmissione dei testi, e della collocazione culturale (ancora socio-culturale e politico-culturale) degli operatori che vi intervenivano e del pubblico per il quale lavoravano.
Direi per concludere che tutto sommato è la dialettica dentro/fuori a essere un po' semplicistica, nel senso almeno che (come accade nella linguistica spaziale con i centri di innovazione) nella realtà dei fatti culturali e letterari "dentro" e "fuori" dovevano affrontarsi e talora scambiarsi le parti. L'altro Medioevo può così sembrare un'etichetta un po' schematica, in parte forzante - soprattutto in una collana destinata alla divulgazione - e in fin dei conti anche un po' riduttiva nei confronti dei testi e della loro costitutiva plurivocità.

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