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Il saggio si inserisce in una fitta serie di studi che negli ultimi vent'anni, in particolare grazie alla spinta esercitata dai volumi di Memoria dell'antico curati da Salvatore Settis (Einaudi, 1984-86), hanno verificato il ruolo della tradizione classica nella storia dell'arte e della cultura europee; forse proprio l'età medievale è stata quella che ha sollecitato il maggior numero di contributi e riservato sorprese per spessore e varietà della casistica. In questo caso si affronta un territorio speciale come il Piemonte, che nell'antichità come nel medioevo è stato spazio di contatti, passaggi e reciproci influssi tra aree culturalmente diverse. Come accade in tutte le altre regioni italiane, anche in Piemonte il rapporto con l'antico passa prima di tutto per il reimpiego; si tratta di una pratica che sarebbe sbagliato limitare al solo lato materiale e al solo versante archeologico, come si è visto nella sessione del Centro studi sull'Alto Medioevo di Spoleto dedicata appunto a Ideologie e pratiche del reimpiego nell'Alto Medioevo (1999).
La prima parte del libro offre dunque una minuziosa rassegna, ordinata per città, dei casi piemontesi di uso dell'antico, tanto quelli ancora visibili, quanto quelli che si possono ricostruire grazie a fonti differenti, che l'autrice usa con meticolosa attenzione: vite di santi, disposizioni liturgiche, visite pastorali, sillogi epigrafiche, cronache e compilazioni locali. Si compone così una fitta trama di luoghi e di oggetti (iscrizioni, bassorilievi, capitelli, fusti di colonna, ma anche gemme e dittici eburnei) variamente scoperti e altrettanto variamente messi in uso; ma si delinea anche, in parallelo, una tormentata vicenda di rimozioni, spostamenti, dispersioni che, dopo la fine del medioevo, hanno profondamente alterato il rapporto originario tra materiali antichi e contesti medievali. Alla ricognizione topografica fa seguito un esame delle "pratiche di reimpiego", ora considerate secondo le destinazioni (gli altari, i reliquiari, le sepolture di rango), ora osservate secondo la tipologia dei materiali riusati, in particolare le iscrizioni di età romana; va detto che in quest'ultimo caso, come anche nel capitolo dedicato alle colonne indicatrici delle distanze sulle strade romane (miliari), emerge uno dei pregi del saggio, quello cioè di riuscire a osservare tanto episodi locali quanto, in controluce, casistiche e scenari ben più ampi dei confini piemontesi.
L'indagine condotta conferma infatti che anche nella regione subalpina c'è un reimpiego finalizzato a scopi puramente costruttivi, limitato cioè al solo uso delle antichità come materiali; ma c'è anche un reimpiego che "riprende" assieme la concretezza dei resti classici e le possibili valenze simboliche dell'antico: è con questa dimensione che si misura l'autrice, riuscendo a mettere in evidenza alcuni episodi importanti di questa "ripresa" dell'antico in Piemonte, come la bella tomba del vescovo Guido di Valperga (1327) nella cattedrale di Asti, puntualmente messa a confronto con un monumento funerario di età romana di Arezzo, assai simile nella struttura e negli elementi decorativi. Per quanto già segnalato da altri studiosi, lo straordinario episodio di San Pietro a Cherasco viene di nuovo affrontato e collocato entro un puntuale quadro storico: verso la metà del XIII secolo la facciata della chiesa viene rivestita nella zona mediana da una fascia composita (quanto ordinata) di conci, rilievi, iscrizioni antiche, mentre la loggia superiore viene ornata da una serie di piccole erme inserite nella muratura in mattoni in contrappunto a una sequenza di bacini ceramici; le antichità vengono dunque ricomprese nel tessuto medievale, ma nello stesso tempo esposte e recuperate nel loro grande potenziale decorativo.
Claudio Franzoni
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