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Il fatto è che il padre della narratrice è si Lettone, ma di origine ebraica ed il nome Gershon è quello del primogenito di Mosè. Così la ricerca di notizie su di lui diventa una ricostruzione del calvario degli ebrei di Lettonia e del loro annientamento. Il procedimento della Jarre (e perciò del suo libro) è quasi di tipo giudiziario, anche se non sistematico: raccoglie testimonianze, anche epistolari, coeve, fa tesoro dei libri consacrati al problema, consulta documenti e lapidi, con un'ardimentosa mescolanza dei generi. Il calvario secolare culmina in un'ecatombe perpetrata a Riga dai militari tedeschi con l'aiuto volenteroso della popolazione. In grandi rastrellamenti nei due ghetti di Riga si raccolgono tutti gli ebrei, anche donne e bambini, anche malati e moribondi strappati dagli ospedali. Essi vengono spinti con la violenza, in due giorni successivi, verso fosse fatte scavare da prigionieri russi, e mitragliati fino all'ultimo uomo. Il loro numero, solo accennato dalla scrittrice, è di quelli a quattro zeri: gli ebrei lettoni, intorno al 1930, ammontavano a 95.000. Queste scene apocalittiche, che includono anche l'assassinio del padre della scrittrice, costituiscono un'immagine ricorrente nel libro: prima vaga e confusa, si arricchisce via via di particolari, che vengono a costituire un campionario della bassezza umana: la folla e le autorità che assistono compiaciute alla barbara mattanza, il soldato che scatta la foto-ricordo. Ma quando la Jarre raccoglie le dichiarazioni di qualcuno dei responsabili non intende promuovere processi e condanne. Le muove un assillo morale : capire, per quanto possibile, i comportamenti, affacciarsi sugli abissi dell'abiezione, approfondire i motivi di una congiura del silenzio che si è riscontrata anche in Italia. Figlia di madre valdese, e valdese essa stessa, la Jarre non si sente divaricata rispetto alla discendenza da un padre ebreo. Anzi. Rivive in sé la profonda continuità tra Ebraismo e Cristianesimo.
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