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Un capolavoro della letteratura mondiale contemporanea, un libro che tutti dovrebbero leggere. Impossibile non provare empatia verso questo scrittore che dimostra qui di avere un'ampia cultura a livello storico, politico e letterario. Un ex ingegnere che ha dedicato la sua vita alla letteratura affinché l'essere umano possa essere in grado di compiere scelte consapevoli e giuste. Complimenti a Norman Manea.
Nella copertina si legge come sottotitolo “Una vita” e anche se il frontespizio non rispecchia più questa scelta editoriale limitandosi al solo titolo, il lungo romanzo di Manea – ben 366 pagine di fitta scrittura – racconta una vita. Quella dell’ebreo Norman, nato nell’anno ’36 nella Romania del Nord, del bambino che viene deportato dall’odio antisemita assieme ai genitori nel 1941 per ritornare vivo, ma segnato per sempre, nel 1945. La prima adolescenza del pioniere Norman, comandante del distaccamento con la cravatta rossa al collo durante gli anni dell’Utopia comunista, la gioventù dell’innamorato ebreo con una Giulietta cristiana, gli anni a Bucarest, il lavoro come ingegnere, la passione per i libri, l’esilio… É l’autobiografia, o la confessione se vogliamo, di un esule che da “l’altra vita” chiamatasi New York, prepara il viaggio di ritorno nel passato, percorrendo, ritrovando e purificando ogni angolo perduto della memoria. Dalle pagine adornate da frasi di Kiekergaard, Kafka, Freud, Lyotard, versi di Zbigniew Herbert, scopriamo il mondo tragico dello scrittore dell’Est, una tragicità quasi scelta, cercata, elaborata e arricchita tramite la coincidenza con la tragedia universale dell’Uomo. “Banalizzazione della tragedia, interminabile impresa umana! Solo divenuta cliché la tragedia trova il proprio domicilio nella memoria collettiva.”, avverte e tranquillizza al tempo stesso Norman Manea che però non dimentica di citare nomi e cognomi di “avversari”: il suo ritorno nella Romania post-comunista non è solo riconciliazione con la tomba della madre, ma anche la migliore occasione per convincersi che la strada scelta, quella dell’esilio, era la via giusta da seguire, che aveva fatto bene a scegliere sia i nemici sia gli amici. Questa ossessione costituisce forse l’unica pecca di un racconto interiore con pagine indimenticabili e lucide intuizioni sui grandi temi dell’esistenza umana.
Recensioni
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Il ritorno dell'huligano è l'autobiografia di Norman Manea, una delle poche apparizioni italiane della narrativa romena contemporanea. È la storia di due ritorni, inframmezzati l'uno con l'altro e con altre fasi della vita dello scrittore. Il primo ritorno era quello dell'autore, allora bambino, dalla deportazione oltre il Dniester: nel 1941, sotto il regime fascista del maresciallo Antonescu, gli ebrei della Bucovina e della Bessarabia erano stati deportati in Transnistria ai confini della Romania con l'Unione sovietica. Durante la deportazione, decine di migliaia erano morti per gli stenti e le epidemie provocate dalla scarsezza di cibo e dalle precarie condizioni igieniche. La deportazione della famiglia e il ritorno del protagonista nella regione natale nel 1945 erano già stati rappresentati in alcuni racconti del primo libro di Manea uscito in Italia, Ottobre ore otto (Serra e Riva, 1990). Non appaiono invece o quasi in questo romanzo: della terribile esperienza il bambino tornato non ricorderà e non vorrà ricordare più niente, o quasi niente ("stanze senza finestre né porte: è quanto so o mi è stato raccontato").
Il secondo ritorno, rappresentato invece puntualmente, quasi minuto per minuto, in parte come trascrizione da un diario tenuto in tempo reale, è quello dello scrittore in Romania dall'America, dove era emigrato nel 1988. Emigrato, cioè fuggito dal comunismo: in questo romanzo come nelle opere precedenti, in particolare nei quattro racconti di Paradiso forzato (Feltrinelli, 1994), Manea ha dato uno dei quadri più vigorosi e implacabili dello squallore ma spesso anche dell'orrore quotidiano nel comunismo reale. Al ritorno in patria, dunque, che avviene nel 1997, lo scrittore si era deciso con trepidazione: era il primo incontro con il proprio paese dopo la caduta del comunismo, un ritorno ai ricordi privati, primo di tutto al cimitero della Bucovina che ospita la tomba della madre, al paese dove si parla la sua lingua, dove lo scrittore ha vissuto e si è formato, ma anche un ritorno al paese con il quale lo scrittore, ebreo, non si sente più in armonia.
Come in altri paesi ricoperti per quasi mezzo secolo dalla coltre comunista, la Romania si è risvegliata alla libertà riscoprendo intatti gli incubi e le ossessione del periodo tra le due guerre. È rinato il nazionalismo, un nazionalismo tinto nei casi estremi di antisemitismo. Può sembrare strano che la questione centrale nell'incomprensione ebraico-romena sia rappresentata dal caso Eliade. Ma per molti romeni, Mircea Eliade, il grande storico delle religioni e romanziere (che continuerà, come poi lo stesso Manea, a scrivere in romeno in esilio), è il genio stesso del popolo romeno, e come tale deve essere preservato da ogni macchia, da ogni peccato che possa offuscarne l'immagine. Visione ingenua, ma non innocua. Bisognerà perdonare a Eliade di essere stato, ancora giovanissimo, uno degli ideologi dell'estrema destra romena? Di essersi spinto su questa via in quegli anni fino all'antisemitismo? Quello che pare facile a molti romeni, contenti solo di cancellare i tabù del comunismo, non lo è certo per l'opinione pubblica occidentale: dall'America, dalla Francia, e anche dall'Italia, si ripetono le denunce del passato fascista di Eliade.
Anche Manea ha partecipato dall'America a quest'opera di denuncia con il saggio Felix culpa (in Clown. Il dittatore e l'artista, 1992; in italiano presso il Saggiatore, 1995). Solo che, vecchie ormai di almeno trent'anni, le denunce del passato fascista di Eliade si rinnovano in forme nuove, più estreme, rivelando un obiettivo: distruggere Eliade!, un obiettivo che mi sembra altrettanto assurdo di quello della sua difesa a oltranza o addirittura della sua beatificazione nazionale. Nel reiterarsi della polemica, direi che le due parti stanno accumulando ormai più torti che ragioni. Non sarebbe più utile se si discutesse la diffusa riabilitazione, in Romania, dello stesso maresciallo Antonescu? Ma, si sa, scrittori e intellettuali si occupano preferibilmente di scrittori e intellettuali, e nemmeno Manea fa eccezione. Il grande Nicu Steinhardt, autore del Diario della felicità (il Mulino, 1995; cfr. "L'Indice" 1992, n. 5), ebreo convertito all'ortodossia e diventato monaco ortodosso dopo sei anni di carcere comunista, meritava proprio di essere messo alla berlina come fa Manea?
Insomma, con il contenzioso aperto di queste e altre questioni, letterarie e non letterarie, il ritorno di Manea nella Romania del 1986 è difficile quanto era stato festoso e pieno di speranze quello di quarant'anni prima.
Ma veniamo a questo romanzo. Che Norman Manea sia un grande scrittore, il lettore italiano di Ottobre ore otto e delle opere successive, tradotte in italiano dal fedele e bravissimo Marco Cugno, lo sapeva già, e questo romanzo lo conferma. Lo stile vigorosamente ellittico dei primi romanzi si piega nel Ritorno dell'huligano " a un andamento più esplicito, qualche volta forse anche meno incisivo. In certi casi Manea riscrive qui in chiaro quello che in Ottobre ore otto era criptato, criptato certo per vigorosa ellissi di stile, ma anche per opera della censura: in Ottobre ore otto non appariva nessun dettaglio geografico, né la parola ebreo, e di qui si capirà perché sia così faticoso il superamento di divisioni storiche che fino al 1989 non era nemmeno permesso menzionare.
Appare per esempio in chiaro la figura di Maria, giovane romena cristiana che segue gli ebrei nella deportazione, procurandosi documenti falsi, e che, al ritorno, sposerà il segretario comunista della regione, rimanendo benevola madrina dei suoi protetti. Ma non tutto è risaputo nemmeno per il lettore fedele di Manea. Per la prima volta Manea, scrittore aspro nella migliore tradizione romena, tenta la scena idillica nell'immagine del primo incontro tra i genitori sul fondale della verde Bucovina. Racconta la sua ingenua partecipazione alla realizzazione del comunismo nel paese natale. Le illusioni durano poco, si tratterà ben presto di partecipare all'espulsione di alcuni coetanei.
Se il primo ritorno è quello delle illusioni, il secondo è quello del disincanto. Lo scrittore cerca di vedere il proprio paese (la Patria, come scrive, forse con uso ironico della maiuscola) con gli occhi dell'americano che accompagna in visita, scoprendone con stupore l'entusiasmo e l'ammirazione, talora un po' ironica, per un paese in cui l'intelligenza, la simpatia e l'imprevedibilità sembrano inesauribili. Il secondo ritorno di Manea è soprattutto un ritorno, non sempre felice, tra gli intellettuali, a cui lo legano fili tenaci nel passato: ma né le parole né le cose sono semplici e univoche. E su tutto grava una previsione e una minaccia: quella che le incomprensioni finiranno quando anche in Romania, come in Occidente, gli intellettuali "diventeranno irrilevanti", secondo la previsione di un giovane diplomatico riferita da Manea. Allora "il dibattito sul nazionalismo verrà marginalizzato. Come tutti i dibattiti intellettuali, non crede?".
BOX
Perché "huligano"?
Nel romanzo di Manea ritornano alcune metafore ed espressioni fisse di interpretazione non facile: il "Mezzo-uomo-a-cavallo", Romeo e Giulietta, la scritta di un muro di New York che sostiene l'origine chimica della depressione, il verbo Hypokrino. Ma la più imbarazzante è quella che compare anche nel titolo, Il ritorno dell'huligano. Perché "huligano"? "Huligano" è il teppista, l'accusa di "uliganismo" designava spesso nel periodo comunista il reato di chi si opponeva alle idee-guida dell'ideologia: come dire "teppista intellettuale". Ma la parola era già in uso precedentemente al comunismo: proprio il romanzo giovanile di Mircea Eliade si chiamava Gli uligani. E Manea parla di "anni uliganici" per il periodo tra le due guerre.
Le sovrapposizioni sono così numerose e si riferiscono a casi così differenti che l'interpretazione del titolo sembra incerta. Manea si autodefinsce huligano. Perché? Dovrebbe essere decisiva la definizione che l'autore dà a p.24: huligano è il "marginale, non allineato, escluso": e cioè, interpreto, colui che i nuovi nazionalisti, con parola presa a prestito dalla "lingua di legno" comunista, accusano di uliganismo.
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