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Anche in Habermas nel corso degli anni si deve constatare un passaggio da un ateismo marcato ad una posizione più morbida nei confronti della religione e ciò è imputabile principalmente all’evidente ripresa del ruolo pubblico delle religioni nell’età postsecolare. Si tratta di analizzare il ruolo delle comunità religiose nel contesto in cui la secolarizzazione delle istituzioni ha fatto il suo corso, ma in cui i mezzi di comunicazione di massa, i dibattiti su alcune questioni di valore e l’immigrazione insistono su elementi chiaramente religiosi. Allora, il punto decisivo è questo: consideriamo pure che le religioni accettino di vivere in un mondo secolare e aprirsi al dibattito pubblico con una versione ragionevole della loro fede, i suoi interlocutori secolaristi sono disposti ad accettale? Qui si apre una frattura che è epistemologica tra due diversi presupposti cognitivi, infatti si tratta di distinguere tra un’idea secolare di “ragione autonoma”, tipica di soggetti che fanno riferimento alla ragionevolezza e un’idea secolaristica di “ragione autonoma”, tipico di soggetti che attribuiscono alla ragione una sorta di esistenza autonoma. Quest’ultimo tipo di prospettiva conduce verso posizioni laicistiche, che non concedono alle religioni la possibilità di separare gli ambiti perché, in fondo, dubitano che la ragione possa essere autonoma in presenza di un nucleo veritativo di tipo metafisico. Alla fine, l’opzione di Habermas è orientata ad invitare gli interlocutori secolaristi ad ammettere che la loro filosofia della storia, ciò che permette un avanzamento del dibattito sui diritti umani, non è che una secolarizzazione dell’universo simbolico del cristianesimo primitivo e, di conseguenza, il dialogo oltre a essere possibile è anche necessario.
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