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recensione di Taviani, F., L'Indice 1998, n. 4
Simile a un donchisciotte non tanto debole di mente da andarsene errando per le campagne e i paesi, Molière usò probabilmente il paese del teatro come extraterritorialità, a difesa d'un proprio difficile modo d'esser libero. È molto diverso, quindi, se si osserva soltanto quel che scrisse o anche quel che fece: il modo in cui intrecciò le opere alla vita personale, secondo quella strategia e quello scandalo dell'esporsi e del rovesciarsi che tanto impressionava i suoi compagni, alcuni spettatori e i più intelligenti fra gli avversari.
Da queste due prospettive (quel che scrisse, e quel che fece di sé scrivendo e recitando) derivano due Molière contrapposti: da una parte il classico della letteratura e del repertorio, monumento comico di quella porzione del Seicento francese che viene detta" Grand Siècle"; dall'altra, l'artista gioioso, livido e sibillino. Questa seconda figura è oggi più viva in Italia che in Francia, per merito soprattutto di Giovanni Macchia e di Cesare Garboli, scrittori diversissimi, ma accomunati da un'analoga passione per la "persona" di Molière e le scosse che è ancora in grado di dare.
Ma anche l'altro Molière, il ben regolato classico del comico, il Molière-solo-testo, può essere sottratto alla sua inoffensiva tranquillità. Potrebbe dimostrarlo questo libro di Francesco Fiorentino, interessato non alla storia complessa e radioattiva dell'attore-autore, ma alla traccia che nella sua opera si conserva della cultura del tempo. Il libro di Fiorentino è un libro serio, una ricerca ben definita, non uno di quei manuali che ricapitolano un po' di tutto. Indaga un solo livello d'organizzazione della drammaturgia molieriana, per individuare l'evoluzione d'un pensiero sulla "normalità" e sui limiti dell'ideologia dell'"honnête homme", che conduce a un carnevalesco riscatto dei valori della vita come festa.
La via più semplice, per chi vuol far ridere a teatro, è mettere al centro una figura ridicola che per i suoi vizi e le sue deficienze susciti un riso di superiorità già prima di impegolarsi in vicende spassose. Nella farsa, il ridicolo di partenza sta nella deformazione delle macchiette e delle maschere. Nella commedia, diventa tipo o carattere: un vizioso, un imbroglione, uno smodato, un fuori posto, un inconsapevole e un beffato, o un vorrei-ma-non-posso. L'uso del personaggio già di per sé ridicolo è comodo perché anche quando attacca persone pericolose, cioè in grado di reagire duramente, s'appoggia pur sempre sui gusti e i valori correnti e li conferma. Eppure questa comodità viene da Molière abbandonata. La cronologia delle sue opere mostra un mutamento piuttosto radicale, un allontanamento dal ridicolo previo, e di conseguenza la difficile scelta di far ridere sul serio.
Se fosse vero, come ha sostenuto Gérard Defaux, che Molière, dal "Misanthrope" in poi, rovescia i rapporti e si pone dalla parte del protagonista comico, condannando la società che lo deride, il suo teatro mostrerebbe una stupefacente metamorfosi dal ridicolo come condanna morale all'erasmiana follia come antidoto per una società ridicola. Secondo Francesco Fiorentino, è vero solo in parte. Il libro di Defaux "Molière ou les métamorphoses du comique: de la comédie morale au triomphe de la folie" (edito in francese a Lexington, Kentucky, nel 1980, e a Parigi nel 1992) è il suo costante punto di riferimento, esplicitato fin dalle prime pagine, ma con l'intento di correggerne la radicale inversione di fronte con un susseguirsi di sfumature che esplorino la complessità del comico e le sue polarità fra ciò che in esso si esprime e ciò che vi si reprime.
Qui agisce soprattutto l'influenza di Francesco Orlando, che alcuni anni fa aveva cercato nel "Misanthrope" non la storia dell'autobiografismo teatralmente perverso che l'autore vi aveva impastato, ma un decorso della "negazione freudiana "("Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo", Einaudi, 1990). Francesco Orlando ha fornito a Francesco Fiorentino l'esempio di un'analisi del prodotto comico attraverso le sue stratificazioni e la sua complessità (il ridicolo di per sé; il ridicolo gettato su colui che ridicolo non sarebbe; il ridicolo che deriva da una disproporzione fra la virtù e i modi per affermarla; la disproporzione che deriva da null'altro che il "rincaro" d'un giudizio moralmente apprezzabile). I diversi strati del comico si rivelano, a loro volta, come matrice di nodi drammaturgici diversamente variati di commedia in commedia, che permettono la costruzione di personaggi moralmente e psicologicamente variegati. Fiorentino ha storicizzato tutto questo, inventariando le diverse sfumature del comico e collegandole alle analisi coeve del comportamento - dai nomi eminenti di Montaigne, Pascal, Mme de Sévigné, La Rochefoucauld, La Bruyère, Vauvenargues, Fénelon, Cardinal de Retz, Saint-Evremond, a quelli forse meno noti di La Mothe Le Vayer, Méré, Charron, Vaumorière, Courtin, Faret, Fleury, Groussault, Morvan de Bellegard e Villiers.
Una tale molteplicità di confronti, un tale ricamo di citazioni e sfumature, dovrebbe permettere di sfuggire al carattere eccessivamente drastico delle tesi di Gérard Defaux salvandone l'essenziale. Ma è qui che probabilmente Fiorentino si sbaglia. Il libro di Defaux traeva la propria energia soprattutto dai difetti. La sua era la forza del sasso nello stagno, non quella di un modello di analisi. Era un libro un po' guascone, sbrigativo e privo di finezza. Inseriva Molière nell'orizzonte della filosofia del comico nei secoli dei secoli, da Aristotele a Erasmo, dalla "Stultifera navis" a Platone, da Bachtin a Rabelais. Secondo Defaux, all'inizio della sua carriera comica Molière aderirebbe ai valori preminenti, quelli dell'"honnête homme"; alla fine sposerebbe visioni estreme (e più arcaiche), carnevalesche, antagonistiche rispetto alle morali che reggono la società. Per capire le sue ultime opere non basterebbe, dunque, pensare alla voga della "comédie-ballet". Bisognerebbe invece vederle come il punto d'arrivo d'un pensiero asistematico ma filosofico sulla morale.
Il riscatto del Molière pensatore, e l'idea di un'evoluzione del suo pensiero, è ciò a cui Fiorentino tiene di più e che lo spinge a trovare in Defaux un interlocutore stimolante e innovativo. Lo definisce "magistrale" proprio perché si oppone alla "visione unidimensionale" d'un Molière "chiuso esclusivamente in una dimensione teatrale", intento solo a far ridere. Sposa quindi la tesi di base di Defaux e la sostiene con una lettura che esamina l'evoluzione dell'atteggiamento e dei giudizi molieriani alla luce d'un percorso di pensiero più articolato, strettamente intrecciato alle voci dell'epoca, lontano da considerazioni commerciali e di mestiere e invece fermo alle quote alte del dibattito morale e letterario.
Ma ho l'impressione che per sgrossare la tesi di Defaux e farle sviluppare tutta l'energia critica latente non basti sostituire un orizzonte di riferimenti più raffinato e articolato, conservando però la logica di base che legge i testi sullo sfondo di altri testi. La si spinge, così, in un'atmosfera filologicamente appropriata, ma eccessivamente rarefatta, che attraverso successive smorzature la riduce quasi all'ovvietà della lettura con (informatissimo) commento. Occorrerebbe invece farla decampare, verso altri confronti. Ciò che blocca Fiorentino e lo spinge a segnare il passo nel cerchio ristretto delle proprie specialità, è - mi pare - un'insufficiente conoscenza della problematica teatrale.
Le problematiche del mestiere, della ditta comica, non spiegano tutto, né spiegano l'essenziale. In questo Fiorentino ha ragione da vendere. È giustificato il suo fastidio nei confronti di coloro che credono di poter risolvere tutti i problemi riconducendoli al mestiere d'un attore che fa ridere moltissimo e pensa poco. Meno ragionevole è però continuare a tener separata la prospettiva del mestiere teatrale dall'avventura del pensiero.
È vero che nulla impedisce di considerare l'opera di Molière in una prospettiva letteraria, ma non tutti i paradigmi buoni per la storia della letteratura van bene anche per quella particolare letteratura che cresce nel contesto teatrale. Dire che Molière non è solo un geniale capocomico che s'adatta alle circostanze, ma anche un formidabile pensatore, non vuol dire che gli si attagli il paradigma del pensiero che si dipana per stadi successivi. Il paradigma dell'"evoluzione" del pensiero d'autore rispecchia la cronologia della composizione dei testi, ma non la storia di un pensatore-attore. Molière non "passava" da una commedia all'altra come da una fase all'altra d'un pensiero che si supera ed evolve. Le sue commedie erano tutte contemporaneamente presenti nell'orizzonte del suo repertorio. Recitava, per esempio, la prima di esse, "L'Étourdi", il rifacimento d'una commedia-farsa italiana, negli stessi giorni in cui recitava il nuovissimo "Misanthrope". Continuare a recitare le "vecchie" commedie non vuol dire soltanto continuare a sfruttarle commercialmente. Vuol dire anche continuare a lavorarle, a "tenerle presenti". Ciò che gli schemi ovvi per la storia della letteratura vedono come "passaggio" o evoluzione da un tipo comico all'altro (dal personaggio ridicolo a quello deriso, per esempio), nella concretezza storica dell'attore-autore è un "allargamento" del repertorio, che mentre conserva tutte le vecchie posizioni, non superandole affatto, conquista spazi nuovi.
Non sono considerazioni marginali, perché mostrano come l'apparente "evoluzione" di Molière fosse in realtà un'"espansione", un allargare i propri margini all'interno del teatro. Se al paradigma sostanzialmente rettilineo dell'evoluzione si sostituisce quello circolare dell'espansione, che non butta niente, che continua a lavorare su ogni tipo di commedia, conquistando però una libertà d'azione sempre più vasta, il tema che si impone allo storico diventa la dialettica che si instaura fra minorità e autorevolezza del teatro. Il punto, mi pare, non è tanto che Molière si apra a determinate problematiche più profonde della semplice spettacolarizzazione del ridicolo, ma che trovi passo passo la libertà per piegarle alle regole della propria professione e l'autorevolezza che gli permette di servirsene impunemente.
Che la ditta comica potesse essere - proprio in quanto ditta - un luogo di scoperta e sperimentazione, e persino di avventura spirituale, questo non lo si capisce ancora. Tant'è che - come se Karl Marx non fosse mai esistito - la prospettiva del commercio sembra ancora sottrarre consistenza all'estetica e alla filosofia dei teatri. E viceversa.
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