Giuseppe Bellosi scrive poesia nel dialetto di Maiano (nel comune di Fusignano), una parlata romagnola di area ravennate. Il primo sentimento che suscita la lettura di questi testi rarefatti è quello di trovarsi in una zona di massima allusività, ottenuta con un minimo di mezzi espressivi. La tecnica rappresentativa di Bellosi procede per sottrazione e isolamento, di modo che le poche insorgenze che restano sulla pagina diventano enigmatiche, con un procedimento simbolistico. In questa direzione non c'è discontinuità nei tre poemetti che l'autore ha infine raccolto in un unico volume: È paradis (1992), Bur (Buio, 2000) e Requiem (2013). La raccolta complessiva, che prende il titolo dall'ultima delle tre citate, si legge infatti come un'unica sequenza, piuttosto compatta e continua. Il borgo, luogo della domesticità, è di continuo attraversato dai fili dell'inquietudine, da un senso di smarrimento, da brividi metafisici che si fanno strada attraverso la scomposizione delle cose viste e udite. Certamente Bellosi si inserisce in una corrente di poeti dialettali di vaglia, tra cui si potrebbe citare il compianto Tolmino Baldassari, ma anche Emilio Rentocchini (che scrive nel dialetto di Sassuolo), per non ricordare la grande triade santarcangiolese di Guerra, Pedretti e Baldini. E tuttavia credo che un retaggio rilevante nella voce di Bellosi sia quello pascoliano, naturalmente reinventato e rifatto proprio, se non addirittura ritrovato, per necessità, in fondo al proprio mondo espressivo e alla propria coscienza poetica. Quando in uno dei brani iniziali di È paradis (il IV) l'autore accenna a una serie di presenze che segnano il quadro come sospeso e cifrato, la trafila pascoliana può essere a buon titolo indicata (la traduzione è quella di Loris Rambelli): "Non ho mai visto un cielo così, / squallido, / questo colore d'aria ferma, / i fiori del tarassaco, / la macchia di giallo lungo i fossi") e poi, in chiusa: "È pasa i stùran int e' zil piuvân. / J à rabatù i scuret: / ascult l'armór e basta / dl'acva. // Int e' spëc de' cumò / j oc i s'i fesa in dentar / par gnît: / e' pöst a l'ôrba in do che i fion j è mot" (Passano gli storni nel cielo piovano. / Hanno accostato gli scuri: / ascolto il rumore e basta / dell'acqua. // Nello specchio del comò / affondo lo sguardo / invano: / i luoghi dell'ombra dove i fiumi sono muti). Il buio o la perdita della possibilità di vedere (ad esempio per la presenza di una coltre nebbiosa) sono tra gli indicatori di una alterità che dà segno di sé tra le cose del mondo, rimandando al tema mortuario. Il pensiero dei morti (esibito in Requiem già dal titolo) mescola una obliqua onnipresenza e una dolente dissoluzione: essi occupano il luogo della memoria che confina con il sogno. Sogno, vanità, sospensione di ogni certezza fanno di questa poesia un raffinato prodotto tecnico, in cui un soprassalto d'inquietudine indica, con suggestioni che vanno da Pascoli a Caproni a Baldini, un dominante spaesamento conoscitivo. Daniele Piccini
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