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Libro ideologico, poco serio e pieno di luoghi comuni caratteristici del campo progressista. Sconsigliatissimo!
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Regione straniera di Giuseppe Civati è un viaggio nella pancia amministrativa del buon governo padano, quello nel quale i problemi non si affrontano né si risolvono ma si evocano, si amplificano e producono consenso. I problemi, ça va sans dire, sono quelli legati all'immigrazione che, da fenomeno globale e complesso delle società contemporanee, precipita sui marciapiedi delle città del Nord Italia assumendo contorni grotteschi e ossessivi.
La Lombardia è uno dei territori più ricchi e infrastrutturati d'Europa. La sua economia globalizzata ha richiamato negli anni manodopera proveniente da tutto il mondo. Gli immigrati sono lavoratori e consumatori, e l'ethnic business lo ha capito da tempo. Pagano tasse, rate di mutui, incrementano il Pil dei loro paesi di origine con le rimesse e il mondo bancario e finanziario si sbraccia per offrire servizi multilingue per intercettarli. Sono motori economici, senza i quali probabilmente l'affanno competitivo dei nostri sistemi produttivi sarebbe ancora più fragile e incapace di reggere le sfide globali. Anche perché l'assenza di diritti li rende lavoratori meno costosi e più vantaggiosi, esempio palese di come si possano delocalizzare gli oneri sociali del costo del lavoro senza delocalizzare imprese e filiere produttive, scaricando la concorrenza sleale sulle spalle dei lavoratori.
Giuseppe Civati, studioso e consigliere del Pd della Regione Lombardia dal 2005, attento e intelligente osservatore delle dinamiche sociali e culturali del suo territorio, ci conduce in un viaggio sconfortante che attraversa i paradossi di un'economia che ha bisogno di immigrati, possibilmente senza diritti, e di una società che non vuole riconoscerne l'esistenza. Nello scarto che si produce, le politiche pubbliche regionali e locali si incuneano per produrre un abominevole monstrum giuridico e amministrativo che, al grido di "prima i nostri", sistematicamente discrimina, umilia, mortifica e annienta gli abitanti non-cittadini del territorio.
L'accanimento contro i phone-centers diventa la prova muscolare della discriminazione urbana: i provvedimenti legislativi impongono loro standard urbanistici come fossero grandi superfici commerciali. La motivazione politica che emerge nei dibattiti pubblici intorno agli atti è un florilegio di stereotipi razzisti: i phone-centers devono avere più toilette, perché se entra un italiano che "ha un uso più tradizionale del bagno" deve potersi non contaminare. Le case popolari ai lombardi, e guai a costruirne di nuove perché se no ci vanno ad abitare gli extracomunitari. Le moschee e i luoghi di preghiera diventano occasione di passeggiate suine, provvedimenti urbanistici "ad moscheam", ordinanze e proclami. Il divieto di mangiare in strada, legiferato per contrastare le gastronomie egiziane o i kebap, colpisce anche le gelaterie, le pizzerie al taglio, i bar. Con il paradosso di impedire di consumare il cono da passeggio mentre, appunto, si passeggia.
Dietro questi provvedimenti si intravede, come una trama sdrucita, un'idea di territorio e di comunità locale rinchiusa in un'allegoria di identità tradizionale che non ammette contaminazioni e meticciato. Il kebap, come il cuscus o l'abbigliamento diventano i simboli dell'invasione e dell'annientamento dell'identità, quale che sia oggi, in un mondo complesso e globale, l'identità. È il richiamo alla comunità ancestrale pura e incontaminata che rassicura, lenisce le paure e produce consenso. Poco importa l'astoricità del richiamo, la povertà culturale della visione del futuro che questa idea esprime. E poco importa, in definitiva, che la maggior parte dei provvedimenti siano rigettati dai tribunali amministrativi, da quelli del lavoro, dalla Corte costituzionale, dal Consiglio di Stato. Sono i giudici a fare argine a una legislazione discriminatoria, illegittima sul piano giuridico e amministrativo. I giudici e gli avvocati. Non la politica. Non le politiche. E, nemmeno, un'opinione pubblica annichilita. Non chi ha la responsabilità e il dovere di affrontare con lungimiranza, rigore e serietà uno dei fenomeni più complessi della società occidentale e contemporanea.
In alcune amministrazioni locali si sperimentano pratiche di buon governo del fenomeno. In molti casi le politiche locali affrontano la fatica della coabitazione e della convivenza con seria responsabilità e capacità innovativa. Le parole d'ordine della politica però, anche di centrosinistra, stentano a conoscerle e ri-conoscerle come patrimonio collettivo. Le ignorano, lasciando soli gli amministratori locali ad affrontare la perdita di consenso, lo sbarco delle milizie leghiste che con i gazebo che molti invidiano usano taniche di benzina per spegnere i fuochi del conflitto sociale. Al grido di "prima i nostri", bombardano i tentativi di costruzione di un paese interculturale, plurale, moderno. E danno l'assalto a quel preambolo della Costituzione della Repubblica italiana che dovrebbe costituire, quello sì, i principi fondanti del nostro vivere insieme.
Civati ci racconta anche come affrontare questo viaggio nell'ordinario razzismo padano: con le parole della buona politica e delle buone pratiche amministrative. Buone parole, non buoniste: perché affrontare i problemi senza rimuoverli o evocarli significa dare risposte e trovare soluzioni. Ricostruendo, anche, quel legame di comunità civile da opporre all'idea di comunità asfittica in cui ci vorrebbero far vivere, qui al Nord.
Ilda Curti
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