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Francesco Veccia con il suo "Redivivo e Vegeto", in cui il titolo è premonitore di un effetto a sorpresa, riesce ad essere non banale in un filone letterario nel quale si sono cimentati in tanti, spesso con risultati non all'altezza delle aspettative. Il suo genere, quello di un racconto tra il giallo introspettivo e metafisico ed il noir di matrice tradizionale, è impostato in modo molto fluido e caratterizzato da una abile capacità descrittiva di luoghi, di stati d'animo, di personaggi come nei grandi romanzi ottocenteschi in cui la penna dello scrittore pennellava ambientazioni, delineava paesaggi animando personaggi che il lettore, nella loro minuziosità descrittiva, faceva propri vivendoli ed immedesimandosi negli stessi. Il romanzo è bello in quanto ogni capitolo e' come una scena teatrale rinnovata, bisogna saper leggere tra le righe, il non detto, intuire dai dialoghi tra i personaggi le sfumature che preludono al successivo colpo di scena in una sequenza incalzante ed avvincente che evita la caduta del ritmo narrativo, invogliando ed incuriosendo il lettore a scoprire il finale. Il tutto senza togliere valore alla ricchezza del dizionario colto, del racconto forbito, alla padronanza del lessico e della conoscenza della migliore tradizione letteraria italiana. La copertina del libro, come in una visione onirica e surreale, rappresenta in modo perfetto anche sotto il profilo formale - nella uguale importanza che le radici nascoste nel terreno hanno rispetto al tronco che emerge dallo stesso - quanto contenuto nel racconto, laddove ciò che si riteneva sepolto in un segreto imperscrutabile, emerge con altrettanta forza in una pianta su cui campeggia il motto HOC GENUS SANGUINE EXTINGUETUR". Ed e' questo il punto di arrivo, che sa tanto di un punto di ripartenza verso lidi ancor più esoterici.
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