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Anno edizione: 2021
Anno edizione: 1996
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recensione di Cambi, F., L'Indice 1988, n. 4
Intelligente e quanto mai opportuna è stata la scelta di riproporre il primo racconto dello svizzero Albert Bitzius (1797-1854), più noto al pubblico con lo pseudonimo di Jeremias Gotthelf, nell'esemplare e suggestiva versione di Massimo Mila uscita per i tipi di Minuziano nel 1945.
Nella tradizione letteraria Gotthelf è di solito annoverato fra gli scrittori più rappresentativi di quel realismo contadino della prima metà dell'Ottocento che descrive e sublima in chiave idilliaca e poetica il composito spettro della dimensione rurale e il rapporto della gente semplice con la propria terra. La novella e il romanzo d'ambientazione campagnola, già radicati in passato - si pensi a tanta letteratura di Jean Paul - si affermano ora come contrappunto al vero realismo, quello cittadino e progressivo a sfondo sociale di Büchner o Weerth, ad esempio. In questa letteratura di periferia e di retroguardia morale e politica, fruita più nei salotti che non dai contadini restii e comunque incapaci di guardarsi allo specchio, come osservava lo stesso Keller, la figura e l'opera di Gotthelf risultano ancor più periferiche ed eccentriche. Nativo dell'Oberland bernese, rifiuta lo spirito modernista della città e, pastore del minuscolo paese di Lützelflüh, intraprende crociate appassionate contro le forze del male e della superstizione animato da profondi ideali riformatori e filantropici. La sua narrativa, una dozzina di romanzi e alcune decine di racconti anche in dialetto, il tutto composto dopo i quarant'anni, si inscrive nella sua ferrea parabola di predicatore evangelico; così anche il potentissimo e tragico affresco epico del "Ragno nero" (1842). Una festa di battesimo in una fattoria, di cui si respira la luminosa lindura d'aria e di vita, dà occasione all'anziano della casa di rievocare una leggenda del luogo. Dall'idillio siamo proiettati nella tragedia di una comunità medioevale che, per sottrarsi alle vessazioni dei Cavalieri Teutonici, è costretta ad accettare un patto infamante col cacciatore verde, variazione silvestre di uno dei tanti Mefistofele: gli dovrà consegnare un bambino non battezzato. Si ricorre al sotterfugio e una contadina, che ha suggellato con un bacio il patto con Satana, vede crescere su di sé un ragno mostruoso che la divora, seminando poi di morte il paese intero in orrido e terrificante crescendo. La vendetta diabolica è neutralizzata dall'atto di coraggio di una madre che imprigiona il ragno nel buco di una trave, ma temporaneamente, perché con magistrale duplicazione generazionale e d'immagini si ripeteranno la colpa e la punizione. Il ragno è metafora mostruosa del male in tutte le sue manifestazioni: l'epidemia, la calamità naturale, l'ignoranza, la mancanza di fede, emanazioni tutte della natura stessa che Dio punisce ma può anche redimere. Il ragno rinchiuso nella trave resta sempre in agguato forse anche per noi moderni che, kafkianamente, potremmo sentircelo abbarbicato non più alla guancia ma alla mente.
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