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Anno edizione: 1989
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Libro deludente. Scrittura banale, approssimativa, senile. Affresco convenzionale di un ambiente pseudoaristocratico sopravvissuto alla rivoluzione francese che rimira se stesso e pur consapevole di essere destinato a scomparire, non esita a tediarci con le proprie ossessioni (sesso, soldi, formalismo).
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1989)
recensione di Di Maio, M., L'Indice 1989, n. 9
Il titolo dell'ultimo volume della trilogia autobiografica di Marguerite Yourcenar è uno di quelli che fermano, che trattengono il lettore sulla "soglia" (per dirla con Genette) dell'opera. Come avviene tutte le volte che un testo rimanda ad altri testi, a un 'altrove' letterario sulle prime indecifrabile. "Quoi? L'Eternité" è infatti una citazione (lasciata opportunamente nella lingua originale in questa edizione italiana), una citazione da Rimbaud. È il secondo verso di "L'Èternité" ("Ultimi versi"), composta nel maggio 1872 e inserita anche in "Alchimia del verso" ("Una stagione all'inferno") in versione deliberatamente e dolorosamente modificata.
Dapprima le intenzioni erano probabilmente diverse. Sappiamo da lontane dichiarazioni di Yourcenar che il titolo di questo "pannello" del poderoso trittico intitolato "Il labirinto del mondo" avrebbe dovuto essere il più "musicale", 'Suite ei Fin'. Ma allora perché Rimbaud?
La prima impressione è che davanti a quest'ultima sezione del "labirinto" che siamo invitati ad attraversare - come davanti ad ogni "inferno" che si rispetti ("Per me si va...") - esso funzioni come una specie di avvertimento: sono parole di particolare importanza che devono essere lette e che possono anche mettere in guardia chi sta per entrare. Sono braci di parole che si consumano in un "giorno di fuoco": "È ritrovata. / Che? - L'Eternità. / È il mare andato / Con il sole." (trad. Margoni). Anche se la lettura, se la vertiginosa traversata di questa prima strofa rimbaldiana sconsiglia qualsiasi interpretazione piattamente referenziale e semplificatoria (volenterosamente suggerita dalla quarta di copertina dove il "mare" diventa "marea"), diciamo che questi versi forniscono al lettore un primo "filo di Arianna" nell'avventurarsi nel labirinto.
Questo titolo inoltre è molto diverso dai due precedenti della trilogia: " Souvenirs pieux" ( 1973) e "Archives du Nord" (1977), più tradizionalmente consoni agli intenti e alla forma che andava prendendo la grande impresa di Yourcenar, ispirata e sorretta da quella che lei stessa definiva la sua "immaginazione genealogica". In essi si alludeva chiaramente al culto, alla devozione per i morti (e a chi potrebbe sfuggire la profondissima risonanza semantica di "pieux"?) e all'operazione di ricerca, di scavo, di riattivazione nella scrittura di una mole immensa di materiali, privati e documentari, sui quali ricostruire la storia della sua famiglia, sin dalle origini.
L'idea di abbracciarne tutte le generazioni, nel ramo paterno e materno, "risalendo" fino alla propria nascita, si era materializzata, intorno ai vent'anni, nell'abbozzo di un vastissimo "romanzo storico" - come si legge nel libro di interviste a Matthieu Galey intitolato "Les yeux ouverts" - la cui scena doveva essere il nord della Francia, il Belgio e l'Olanda. Da questi "archivi" provengono innumerevoli spunti e suggestioni per "L'Opera al nero" (1968), ma Yourcenar ritornerà su quel primitivo disegno con intenti diversi "negromantici" (e "Necromantia "è il titolo di un capitolo di "Quoi? L'Eternité"), ossia per resuscitare tutti quei morti (strappando loro i più reconditi e indicibili segreti). Così il romanzo storico diventava la saga familiare e le pallide ombre degli antenati, dei morti noti ed ignoti, sfilavano l'una dopo l'altra nello spazio e nel tempo.
Il progetto era a dir poco grandioso e adeguati gli strumenti: quel paese di fantasmi si animava, tornava a vivere su sfondi storici diversi (dalla "notte dei tempi" - come in "Archivi del Nord" - alla Belle Èpoque) e su diversi sfondi geologici e geografici. Il racconto esibiva tali stratificazioni e tali diversificazioni anche nei toni medi e più colloquiali della rievocazione personale e della "storia quotidiana". Spesso i tanti volti amati o sconosciuti risorgevano da un passato più o meno lontano attraverso l'immagine di una foto ingiallita (i primi ritratti fotografici sono contemporanei alle prime sedute spiritiche) o di un "souvenir pieux" appunto, una di quelle figurine o ricordini funebri che, fino a non molto tempo fa, servivano a ricordare i morti riportando la loro effigie o più semplicemente una preghiera, una citazione dalle Scritture. Ed è questo il significato primo del titolo del volume che apriva "Il labirinto del mondo", come ricorda più volte Yourcenar nel testo e come non risulta dalla traduzione italiana (ancora Einaudi) in "Care memorie", che tradisce l'originale e tradisce (forse) l'intento di dare un seguito alle "Memorie di Adriano".
Anche l'evocazione del "labirinto", facilmente metaforica, è improntata del resto al laboratorio familiare: il padre dell'autrice, Michel, aveva tradotto la secentesca opera omonima dello scrittore ceco Comenio, una specie di "Bosch o di Bruegel in fatto di scrittura" ("Les yeux ouverts"). In realtà, come gli artisti sommi, Yourcenar sa bene come "truffare" i lettori (ed i critici): a volte ampliando a dismisura, a volte restringendo tra le pareti domestiche l'orizzonte di attesa. Il racconto è ricostruzione storica (si tratti dei romani, della rivoluzione francese, della prima guerra mondiale), guida turistica raffinatissima (i viaggi dei parenti, degli amici, i suoi propri viaggi), alternando pagine stupefacenti dedicate a quella specie di museo immaginario costituito dalle descrizioni dei capolavori della pittura, della scultura, dell'architettura praticamente di tutta l'Europa, ai quadri degli interni anonimi delle dimore familiari, alle microstorie private della sua 'gens'.
I generi si mescolano: biografia, autobiografia, diario, racconto storico, romanzo, e vertiginosa è la dimensione spaziale e temporale della scrittura. In "Souvenirs pieux" si parte dalla nascita della scrittrice, seguita dalla morte della madre, per poi tornare indietro, in "Archives du Nord", al contrario, si parte dal passato più remoto della natura e della razza per arrivare all'inizio del nostro secolo, quando Marguerite de Crayencour (non ancora Yourcenar) ha solo sei settimane. In "Quoi? L'Eternité" il tempo e lo spazio sembrano condensarsi, sembrano più controllabili. Il libro si apre con l'agosto 1903 (Marguerite è nata l'8 giugno) e si interrompe, in apparente e perfetta diacrona, con eventi relativi al 1916-18 circa. Un arco cronologico più definito, dunque, e anche una restrizione di campo di tipo diverso rispetto ai volumi precedenti. In questi infatti la rappresentazione del tempo e dello spazio, secondo una specie di percorso di andata e ritorno, partiva e finiva nello stesso luogo e nella stessa data e l'autrice-narratrice era assente dalla scena del racconto. Perciò di autobiografia "impersonale" si era parlato (J. Roudaut) e di violazione, di trasgressione del "patto autobiografico" (identità autore-narratore-protagonista) che fonda ogni "verosimile" scrittura dell'io. Questo terzo volume invece abbraccia un periodo abbastanza lungo della vita di Yourcenar e avrebbe dovuto abbracciare ancora altri anni se la morte non avesse troncato (il 7 dicembre 1987) l'impresa narrativa.
Nonostante questo, vi si cercherebbe invano una nozione tradizionale di opera autobiografica. Certo vi sono abbozzi magnifici, visioni che rivelano un'acutezza singolare dello sguardo e della coscienza del proprio essere, ma l'io di cui si parla (che parla) è sempre quello che avevamo incontrato all'inizio di "Souvenirs pieux" come "costruzione" del racconto: "L'ˆtre que j'appelle moi". E questo essere che chi scrive chiama "io" è protagonista di "Quoi? L'Eternité" allo stesso titolo dei volumi precedenti, perché dietro la più sublime convenzione narrativa c'è la voce che narra.
Una voce "personale" proprio quando chi scrive sparisce come persona e che risalta inconfondibile nel monologare di Adriano o di Zénon, come nelle innumerevoli voci di famiglia: la madre Fernande, Octave e Rémo Pirmez, Michel-Charles e soprattutto Michel, il padre, che domina incontrastato anche quest'ultima fatica letteraria. Michel con i suoi baffi spioventi e il cranio rasato, con le sue mogli (tra cui la madre di Marguerite) e le sue effimere amanti, 'tombeur de femmes' e giocatore, iniziatore del destino splendido e aristocratico della figlia. Con il suo gusto dell'avventura, le sue fughe, la rivolta contro la madre Noémi ("l'abisso di meschinità"), con l'"Ode per i morti della Comune", Michel è l'uomo infinitamente libero, forse il più libero che Yourcenar abbia conosciuto. Somiglia a Rimbaud, al "vero Rimbaud", di cui era contemporaneo. E gli rassomiglia Rémo Pirmez che nel settembre 1872 prepara accuratamente il proprio suicidio mentre Rimbaud s'imbarca per l'Inghilterra con Verlaine. L'impossibilità di vivere accomuna il "pallido serafino", antenato di Marguerite, al "violento arcangelo", al "voyant". Qualcosa di Rimbaud si ritrova, risalendo il tempo, anche in Saint-Just, l"'Angelo Sterminatore" dal cui destino 'demoniaco' Yourcenar è stata un tempo attratta e per il quale usa una definizione che non lascia alcun dubbio: è lo "Sposo Infernale" dell'Incorruttibile, di Maximilien.
La rivolta del padre, la diversità di Rémo, l'"adolescenza infetta" dell'eroe rivoluzionario portano in sé una carica sovversiva e violenta, una sfida radicale che mal si adatterebbe (fin da "Souvenirs pieux") a un'interpretazione di "Quoi? L'Eternité" in chiave irenica, come peraltro è stato fatto isolando la parola 'Eternité' ('vs' Labirinto) in modo a dir poco banale. I molti luoghi comuni sul "classicismo" di Marguerite Yourcenar come presa di distanza dal reale, come sacerdozio artistico un po' troppo freddino, si trovano contraddetti continuamente. Dalle metafore musicali, per esempio, di cui lei stessa si serve molto frequentemente per parlare della sua scrittura. Un personaggio si "sente" - ha scritto - e il primo compito di un romanziere è di ascoltare "il canto di cui è fatto". "Ritratto di una voce" veniva già definito "Alexis o il trattato della lotta vana" (fra le sue opere meno perfette) ed a questa voce andavano lasciati il proprio registro e il proprio timbro.
In "Quoi? L'Eternité" c'è una voce che si perde e si ritrova nel labirinto, nell'incrocio con altre voci, familiari, letterarie, sconosciute, che parlano nelle lettere, nei diari, nei documenti, nei ricordi. Alcune di esse sono già note ai lettori: sono quelle dei protagonisti di "Alexis", di "La nouvelle Eurydice", di 'Il colpo di grazia'. Nella lunga digressione dedicata a Jeanne ed Egon de Reval, la cui storia aveva ispirato, a diversi livelli, le tre opere giovanili, Yourcenar in realtà sviluppa e perfeziona le potenzialità narrative insite in quello che è diventato un triangolo perché Jeanne (forse il solo personaggio femminile a tutto tondo dell'opera intera della scrittrice) è anche l'unico, vero amore del padre Michel. Jeanne, Egon, Michel sono la costellazione intorno a cui si articola non solo questo libro, ma gran parte della produzione narrativa yourcenariana. Per la mediazione paterna, allora, si può riscrivere "Alexis" a più di cinquant'anni di distanzia o si può ritornare con intensificata secchezza drammatica su alcuni segmenti incompiuti del "Colpo di grazia".
Mai come in questo caso l'opera è stata riportata in un vasto sistema autobiografico e, con movimento inverso, l'autobiografia rimane iscritta nell'opera. Inutile poi interrogarsi sui confini tra verità e finzione quando prevale il piacere del racconto, la sua tentazione. Frantumata, moltiplicata, la voce narrante si assesta e si ritrova in pagine di miracolosa bellezza, scegliendo di rimanere dentro al "labirinto del mondo" di cui sola conosce l'inestricabile complessità. "Il tracciato di una vita umana è complesso quanto l'immagine di una galassia. Guardandolo con attenzione ci si accorgerebbe che quei gruppi di eventi, quegli incontri, visti dapprima senza rapporto gli uni con gli altri, sono collegati fra loro da linee così tenui che l'occhio fa fatica a seguirle, e che a volte pare si interrompano, altre volte si prolunghino al di là della pagina" (p. 202). Questa rete segreta di rapporti, queste corrispondenze il romanziere autentico le conosce bene e ci costruisce sopra le sue opere. Talvolta s'imbatte in qualcosa d'inaudito, di "supremo" come l'eternità e allora può solo esprimere "stupore", "meraviglia". Come è accaduto a Rimbaud, ha scritto Yourcenar, per il quale "l'eternità non si comprende. La si constata". O come per il "gran vuoto azzurro-bianco" di Mishima (al quale la scrittrice ha dedicato un saggio famoso), "un vuoto fiammeggiante, come il cielo d'estate, che divora le cose, e di fronte al quale il resto è solo una sfilata di ombre".
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