Queste pagine non sono un racconto del carcere, ma delle persone che lo popolano. E "tutte le persone sono storie" scrive Dawkins.
Curtis Dawkins sognava di fare lo scrittore, frequentava un corso di scrittura creativa in una delle migliori università americane, il suo talento era stato notato. Negli anni non aveva mai smesso di lavorare sodo alle pagine, aveva una compagna e tre figli. La sera di Halloween del 2004 va a una festa, prova una droga che non conosce. Su di giri, esce con gli amici e si lancia in una bravata, un furto maldestro. Prima di rendersene conto, ha ucciso un uomo. Condannato all'ergastolo, si ritrova di colpo sorvegliato a vista in penitenziario. Tutte le sue giornate sono consegnate alla stessa lancinante solitudine, solo con se stesso e costretto alla vicinanza fisica con persone con cui non ha niente in comune e che pure sono simili a lui, unite nell'uguale sforzo per mantenersi stabili di mente. Quando entra in cella e sente la porta chiudersi con uno schianto, Curtis ha due possibilità: morire sopraffatto dal rimorso o imparare a vivere nel presente. Ma è uno scrittore, uno scrittore dal talento affilato che aveva saputo conquistarsi l'attenzione di insegnanti e critici, e l'unico modo che conosce per continuare a vivere è scrivere. La narrativa come una scialuppa su cui salire per allontanarsi dalla nebbia. Queste pagine non sono un racconto del carcere, ma delle persone che lo popolano. E "tutte le persone sono storie" scrive Dawkins. Un racconto che cerca di dirci, con una delicatezza disarmante, cosa significa rimanere umani quando la solitudine assoluta è l'orizzonte con cui ti svegli ogni mattina e le amicizie diventano fugaci quanto scambiarsi una sigaretta o un po' d'inchiostro da tatuaggi. Quando ti assalgono i ricordi del mondo che hai lasciato. Quando hai perso quel filo fragile che tiene insieme la vita e che chiamiamo libertà.
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