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"Il problema morale e religioso è per noi in primo luogo un problema sociale", scrive Jean Jaurès in queste pagine del 1891. All'epoca è ancora consigliere a Tolosa, ma il pamphlet, sebbene incompiuto, è assai significativo. Come rileva, nell'introdurlo, Aurelia Camparini, esso propone "una precisa concezione della rivoluzione nazional-popolare", in sostanziale sintonia con i due più noti scritti successivi di Jaurès, Histoire socialiste de la Révolution française e L'Armée Nouvelle, oltre che con la conferenza La question religieuse et la question sociale, tenuta a Parigi nel 1906. Il popolo francese, un secolo addietro vittorioso portatore dell'idea rivoluzionaria, la più feconda mai concretizzatasi, si va, secondo Jaurès, risvegliando sotto l'egida socialista, per dischiudere al genere umano un nuovo periodo di progresso. Che egli scriva nell'estate del 1891 non è casuale. Nel maggio, infatti, Leone XIII ha pubblicato la Rerum Novarum, ma per l'esponente socialista l'enciclica non ha nulla a che vedere con il "sentimento dell'infinito", tipico delle sensibilità realmente religiose; costituisce piuttosto un tentativo di farsi garanti di un controllo teocratico delle masse. Per Jaurès, che cita numerosi dati relativi a prezzi, spese, salari, solo uno stato socialista può realizzare, senza infingimenti, il vero messaggio cristiano di giustizia e uguaglianza, in contrasto con la diffusa strumentalizzazione del cristianesimo stesso, per la liberazione dell'individuo, contro gli abomini del capitalismo e la "tirannia dei partiti". Daniele Rocca
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