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Bel film italiano, un buon poliziesco, anche se in certi punti è crudo.
Dallamano dirige con mestiere un dicreto poliziottesco.Vigoroso,e a tratti crudele,con un cattivo ben delineato,spietato e luciferino.Peccato solo per i cali di tensione ogni volta che entra in scena Salvino,braccio destro di Vanni.Grace Jones appare in un night club e canta una canzone.Con un seguito apocrifo,da evitare.
«Quelli della calibro 38» s'inserisce nel filone dei film del poliziesco (o "poliziottesco") all'italiana che tra la fine degli anni Sessanta e i primi degli anni Ottanta ebbero un gran fiorire in Italia. (Nascono come un'urbanizzazione dello spaghetti-western e muoiono nelle saghe del commissario Giraldi/Millian che aprirono al comico.) A distinguere le numerosissime pellicole possono essere i cast, gli intrecci, la colonna sonora e la regia. Nel caso di Dallamano abbiamo un grande esempio di regia. La mdp è sui visi, cerca le espressioni ma talvolta trova visi freddi e al limite dell'"inespressività" (come per il commissario Vanni/Bozzuffi o per il Marsigliese/Rassimov - quest'ultimo già con Dallamano in «Si può essere più bastardi dell'ispettore Cliff?». "Inespressività" che già aveva contraddistinto i lenziani personaggi interpretati da Maurizio Merli, ma anche da Henry Silva («Milano odia: la polizia non può sparare»). Dallamano "gioca" con le trovate forti sulla falsariga di un metodo già "sperimentato" qualche anno addietro da Fernando Di Leo (si pensi al poliziotto travolto e scaraventato da un'auto di malfattori in fuga; o alla mano mozzata nelle cerniere dello sportello). Inoltre fa vertere il film su emozionanti quanto spettacolari inseguimenti in motocicletta e non (come anche ci sarà in «Uomini si nasce, poliziotti si muore» di Ruggero Deodato dello stesso anno). Splendide ed efficaci le carrellate a rasoterra sui corpi dilaniati dagli attentati terroristici della stazione prima e del mercato rionale poi.
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