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Se è abbastanza normale, anzi inevitabile, che poesia generi poesia, e non solo per le vie traverse dell'eco e l'allusione intertestuale, o il pastiche, ma anche per quelle all'apparenza più dirette e umili della traduzione (Quasimodo e i lirici greci, Celan e Mandelst'am, Ted Hughes e Ovidio ecc.), è ben più raro - mi sembra - che una traduzione ne generi un'altra, senza rischiare per sé l'obsolescenza. Così avviene per i Quaranta sonetti di Shakespeare tradotti da Ungaretti per lo più durante l'ultima guerra, "come per afferrarsi a una tavola di salvezza" (apparvero nel 1946), e ora volti in francese da Bonnefoy, appositamente per la "trilingue" di Einaudi (che è dunque una prima edizione assoluta). Sia Ungaretti sia Bonnefoy sembrano privilegiare una traduzione piuttosto letterale. Ma laddove il primo rispetta la misura del sonetto elisabettiano (ricorrendo per questo a versi lunghi, composti da unità metriche tradizionali: più spesso un endecasillabo e un quinario), Bonnefoy, che rivendica "il bisogno della forma libera", ne conserva la struttura quadripartita (tre quartine e un distico), quasi sempre però aumentando il numero dei versi, moltiplicando gli enjambement. Si veda solo il celebre incipit del sonetto 19 - "Devouring Time, blunt thou the lion's paws, / And make the earth devour her own sweet brood" - che s'espande in "Temps qui dévores tout, émousse la griffe / Du lion, fais que la terre / Mange ce qu'elle engendre, ce qu'elle aime", di contro all'ungarettiano "O famelico Tempo, la zampa del leone corrodi / E fa' che la terra divori la propria genitura". O quell'indimentica- Francesco Rognoni
scheda di Rognoni, F. L'Indice del 1999, n. 10
bile metafora dei rami invernali, "Bare ruined choirs, where late the sweet birds sang" (73, v. 4): "Chapelles nues en ruines, / Où les chantres, se furent tard des chants d'oiseaux" ("Cori spogliati rovinati dove gli uccelli cantarono, dolci").
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