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recensione di Papuzzi, A., L'Indice 1996, n. 7
Avrebbe voluto fare il calciatore. Non avendolo fatto, se non per diletto, alla buona, Pier Paolo Pasolini riservò al calcio un posto privilegiato, nel suo immaginario, nei suoi libri e nel suo modo di intendere la realtà. Il pallone rappresentava ciò che lui non aveva potuto ottenere, non aveva potuto realizzare. Ecco la tesi su cui è costruito questo libro, che in numerose pagine sorprende il lettore, ma che alla fine lo lascia vagamente inappagato, non perché la materia non sia abbondante, ma perché si avverte la mancanza d'una conclusione.Però può darsi che abbia ragione l'autore, valente giornalista della "Gazzetta dello Sport": può darsi che sia giusto esporre il caso, esibire i documenti, e non andare oltre, perché il rapporto fra Pasolini e il calcio, ma più in generale fra Pasolini e lo sport, non è facile da decifrare e probabilmente chiede di scavare nella storia e di entrare nella psicologia del poeta di Casarsa con più violenza di quanto non abbia voluto fare Valerio Piccioni.
Diviso in otto brevi capitoli, ognuno corredato di una parte antologica, il libro offre gli spunti più felici nelle pagine decisamente biografiche, in cui si ricostruiscono nello stile della cronaca piccoli episodi di vita pasoliniana, raccogliendo le testimonianze di compagni di gioco famosi e non famosi: Ninetto Davoli, Bernardo Bertolucci, calciatori di serie B e C, atleti e attori.Non c'è dubbio, da queste pagine, che Pasolini nutrisse per il gioco del calcio una specie di devozione, che si traduceva in un impegno quasi maniacale sui campi di pallone: niente a che vedere con il clima delle partite fra scapoli e ammogliati, quello era un momento della verità.Episodio centrale di questa passione fu la partecipazione alla nazionale dello spettacolo, a partire dal 1966, con Gianni Morandi e Little Tony, antesignana delle varie nazionali dei cantanti, dei magistrati o dei politici.
Ma l'amore per il calcio era anche amore per lo sport? La domanda non è insensata, perché il calcio pasoliniano appartiene piuttosto al mondo dell'adolescenza e delle amicizie, delle emozioni e dell'innocenza, che a quello della competizione agonistica organizzata.Giustamente Piccioni mette all'inizio del libro una celebre citazione pasoliniana: l'intenerimento viscerale, il brivido sensuale che provò da bambino davanti alle maschie esibizioni dei calciatori e che infantilmente battezzò "teta veleta". Il calcio dunque appartiene all'universo di "teta veleta". Ma lo sport che fine fa? Che cosa resta dello sport? Qui il libro mette insieme diverse suggestioni.Ricorda l'interesse del Pasolini regista per atleti come il triplista Gentile e il pugile Monzon, riesuma vecchi articoli sportivi scritti da Pasolini per "l'Unità" o "Vie Nuove", offre addirittura il testo della partecipazione del poeta a una puntata della trasmissione televisiva di Sergio Zavoli "Processo alla tappa". Però il punto rimane oscuro: si capisce come Pasolini, di fronte all'evento sportivo, fosse diviso tra l'innocenza dell'atleta e l'artificio della competizione. Ma sarebbe troppo facile parlare ancora una volta d'un conflitto fra natura e cultura.
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