"In principio erano gli animali, e i cacciatori vivevano della loro morte". Così inizia Quando eravamo prede di Carlo D'Amicis, apologo in cui un tempo e uno spazio indefiniti fanno da cornice alle vicende della comunità dei Cacciatori e ai destini incerti della loro natura. Cacciatori e prede vivono nel bosco, chiamato Cerchio, oltre i cui confini (la Linea) nessuno si è mai spinto ed entro il quale la loro vita pare regolata da un ordine naturale e necessario. Loro unica autorità è la natura e le sue insondabili leggi, "nemmeno uccidere, in quelle leggi, richiedeva un dubbio, un approfondimento: le leggi della natura non avevano un perché". I cacciatori non hanno nome, ma prendono quello dell'animale a cui meglio rispondono per indole o fisionomia: Alce, Toro, Leone, Bisonte i principali, e poi naturalmente Agnello, l'io narrante, figlio di Alce ma come tutti i giovani nato dal seme di Toro, a cui i cacciatori, incapaci di procreare, affidano il compito della preservazione della specie. Le donne quasi non compaiono, sono tenute "nei pascoli più alti assieme agli animali, nutrendole a latte e mandando ogni tanto il Toro a trovarle". Il solo personaggio femminile a vivere nella comunità è Cagna, madre di Agnello ("Mia madre si chiamava Cagna. Benché ci giocherellasse come una collana, intorno al collo indossava una catena"), perché la natura non è madre, ma terreno di caccia. Agnello ha dieci anni, come gli altri ragazzini (tanto è il tempo da cui Toro non riesce ad adempiere al suo ruolo), e così la sua sessualità finisce per estrinsecarsi esclusivamente nella forma di un morboso rapporto di dominio e sottomissione con Alce e Cagna. L'età di Agnello è un'età rituale: è ancora istintivo e distaccato dai condizionamenti e dalle corruzioni del mondo adulto, eppure ha brama di uccidere e di diventare, com'è naturale, un cacciatore. La sua indole è tuttavia ancora incerta, ed è ricca la sua curiosità verso il mondo che lo circonda. A sconvolgere definitivamente la vita della comunità è l'arrivo di Scimmia. "Scimmie era il nome con cui identificavamo quelli che vivevano oltre il nostro orizzonte: al di là della Linea". Scimmia è una donna, proviene dal mondo civilizzato e arriva nel Cerchio portando con sé una Bibbia. Dal momento in cui viene accolta nella casa di Agnello, l'ordine degli eventi subisce una brusca quanto funesta accelerazione. In una notte gli animali, le prede, scompaiono dal Cerchio. Al loro posto arrivano orde di mostruosi topi con "sei zampe e un solo occhio al centro della fronte", racconta Agnello, che a frotte "si camminavano addosso. Si concentravano alla base del mio terrore. Si scavalcavano ansiosi di balzare sulla preda". È una deflagrazione: nel volgere di un attimo lo sgomento e l'orrore pervadono il Cerchio. I cacciatori diventano prede. Nella comunità esplode un conflitto fratricida, si scopre la fame, l'odio, il rancore, l'esclusione. La loro stessa natura diviene via via sempre più ambigua e indecifrabile, e la contaminazione tra l'aspetto umano e quello animale sempre più imprevedibile. Quando eravamo prede svela un percorso nuovo all'interno della scrittura di D'Amicis, che abbandona il realismo nel quale si era mosso in precedenza e volge verso la sperimentazione di nuovi linguaggi. D'Amicis lavora sull'immaginario distopico, ma lo fa adoperando sapientemente i tòpoi della tradizione, trovando soprattutto una sua forma essenziale ed evocativa nel tradurre i versi del linguaggio animalesco dei suoi personaggi, la cui vera natura è ignota, in una lingua piana e solenne. L'andatura del libro è inesorabile, e alla scansione degli eventi e dei capitoli corrispondono citazioni tratte dall'Antico Testamento (tranne quella che apre l'ultimo capitolo che, significativamente, viene dall'Apocalisse di Giovanni). La questione centrale che D'Amicis intende porre in risalto è quella della dialettica tra natura umana e natura animale, dove la componente umana è il dominio del razionale, del culturale, dell'istituzionale, mentre quella animale lo è del naturale, dell'immediato, è la componente in cui la religiosità è nelle cose e non al di fuori di esse, "perché noi eravamo ancora, allo stesso tempo, la civiltà e il creato". D'Amicis interroga queste due nature senza prendere una posizione etica definitiva nei termini civiltà-barbarie, quanto piuttosto lavorando sui confini, sulla Linea, che separa l'umano dall'animale e quindi il civile dal naturale. E quella stessa Linea posta ai confini del bosco genera forse la seconda conquista del libro: quell'orizzonte, che sarà meta da raggiungere nell'ultima fuga disperata dei personaggi, rimanda all'idea di una direzione della storia, una via obbligata verso l'evoluzione, una linea simbolica che si trova al di là di entrambe le nostre nature e che forse non è possibile, e nemmeno auspicabile, raggiungere. "Non arriveremo mai alla Linea: questo sì, lo sappiamo. 'E se la linea non esistesse?' (
) Se la Linea non esistesse, potremmo fermarci. E con noi fermare la smania, il dubbio, l'evoluzione". Francesco Bratos
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