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«Satie ci è indispensabile» scriveva John Cage più di venti anni fa. Personaggio leggendario della musica moderna, amato già ai tempi delle prime avanguardie per il suo spirito bizzarro, irriverente e acutissimo, Satie si è rivelato col tempo uno dei Santi Protettori, insieme a Duchamp, di tutta la concezione moderna dell’arte. Ma non bisognerà cercare il suo insegnamento in ponderosi trattati e neppure nelle sue vere e proprie ‘opere’ musicali. Volatile e penetrante, l’essenza-Satie si avverte soprattutto in rapide battute, testi marginali, biglietti, lettere, interventi, istruzioni agli interpreti – tutti frammenti di quelle impossibili «memorie di un amnesiaco» che continuò a non scrivere per tutta la vita. Dispersi in mille direzioni, gli scritti di Satie – questo suo cuore esoterico – sono stati qui finalmente raccolti e amorosamente annotati da Ornella Volta. Vi si incontreranno vere rivelazioni (come la folgorante ‘commedia’ L’insidia di Medusa, uno dei vertici patafisici del secolo), preziose confessioni (sempre fuggevoli e ironiche, ma tanto più significative), saggi sapienti sui contemporanei (da Debussy a Stravinsky), geniali proposte (come quella celebre della musique d’ameublement). E mai come in queste pagine si avrà l’impressione di vivere all’interno di quel lungo momento felice in cui a Parigi la circolazione fra musica, pittura e letteratura era continua e frenetica – e Diaghilev e Max Jacob, Stravinsky e Picasso, Tzara e Cocteau si incontravano e si scontravano, formavano repentine alleanze o si lanciavano in brutali polemiche. Satie era un po’ il centro immobile di quel vortice. Fomentatore indefesso del Nuovo, la sua figura manteneva però sempre un qualcosa di separato e distante dal proprio ‘clima’ storico. Candido guru, legato da un’invisibile cordicella a una perenne infanzia, vittima incongrua della propria ironia (un tribunale lo condannò nel 1917, con conseguenze disastrose, per aver scritto a un critico questo biglietto: «Signore, lei non è che un culo, ma un culo senza musica»), impenetrabile marionetta di se stesso, Satie possedeva un’eccentricità profonda che va ben più in là di quella, sempre un po’ militaresca e squillante, delle avanguardie che lo circondavano. Alla sua morte, la sua stanza ad Arcueil apparve agli amici che vi mettevano piede per la prima volta come «un’immensa ragnatela». Lì, in un’agglomerazione indistinta di oggetti eterocliti, reliquati di epoche scomparse, si trovarono quattromila bigliettini nitidamente calligrafati, riposti in scatole di sigari, e un numero imponente di ombrelli. Era quella la tana di un «mammifero» di una specie che contava un solo esemplare. E così, come un essere solitario e unico, lo avrebbe ricordato Max Jacob: «Metteva la mano davanti alla bocca per ridere di soppiatto, mangiava di rado e tornava a piedi, la notte, nella sua casa di Arcueil. Come tutti i genii, aveva un grande buonsenso, mente lucida, sangue freddo e battuta pronta».
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Imprescindibile per chi ama il genio di Satie
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