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Anno edizione: 1996
Anno edizione: 1996
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Una fumeria d’oppio parigina, col suo clima di «spaventosa pace dei sensi», fa da soglia a «questo libro che, tristemente, parlerà del piacere». E, come morbide allucinazioni, da quel luogo sembrano emanare, inanellate in volute di fumo, storie e figure: una generosa simulatrice erotica, «esperta di inganni e di delicatezze», un don Giovanni commovente e sinistro, vittima austera della sua Causa, la Gomorra parigina dei primi anni del Novecento, punteggiata da personaggi leggendari come Nathalie Clifford Barney, Renée Vivien, la marchesa de Morny, e di fronte ad essa l’«intatta, immensa, eterna Sodoma», confidenze lancinanti, tradimenti e seduzioni, patrimoni e onorabilità dissipati per giovani delinquenti, riti neri della gelosia, commedie e cannibalismi dell’eros, apparizioni dell’androgino. Con andamento sinuoso, fra mezze luci e improvvisi barbagli, Colette ci avvicina a tante storie intrecciate, che poi si dissolvono come echi di conversazioni remote, dove le verità affiorano senza volerlo. Qui tutti i personaggi sono abitatori di un solo reame, e Colette vi si muove da sovrana, da erudita, da eroina e da vittima: il reame oscuro e sfuggente del piacere – anzi di «quei piaceri che chiamiamo, alla leggera, fisici», come suona l’epigrafe che si leggeva sulla copertina della prima edizione. Con queste pagine, Colette ha voluto «versare il suo contributo al tesoro della conoscenza dei sensi», un gesto che qui compie con atteggiamento di devoto e un po’ timoroso rispetto. «Quei piaceri», infatti, sono esseri pericolosi, ingannatori, sopraffacenti, vendicativi. Colette lo sapeva come pochi altri, lei che era riuscita con tale sicurezza a confutare la troppo nota sentenza secondo cui ‘o si vive o si scrive’ – e di fatto aveva sempre scritto molto e vissuto moltissimo, sottoponendo la scrittura al filtro severo della fisiologia. Per lei, i «sensi» sono innanzitutto un goffo eufemismo per designare «l’Inesorabile», un «fascio di forze» che si annida dentro una «scogliera sorda e incomprensibile, il corpo umano». E questo libro è tutto un vagabondaggio intorno a quella «scogliera», fra le zone più calpestate e più ignorate dell’eros, un percorso tortuoso, scandito da una prosa che oscilla con magistrale precisione fra le torture e le delizie.
Quando Il puro e l’impuro apparve nel 1932, col titolo Quei piaceri..., poi abbandonato, la reazione fu soprattutto di scandalo e di indignazione. Ma Colette scriveva: «Un giorno forse si riconoscerà che era il mio libro migliore». Il tempo le ha dato ragione: oggi troviamo in queste pagine, nella sua perfetta maturità, quella Colette dall’artiglio affilato di cui parlava Cocteau: «Non ripuliremo mai abbastanza Madame Colette di quella falsa graziosità in cui la leggenda continua ad avvolgerla... Non prendetela per una cara vecchia signora. La sua zampa di velluto poteva mostrare fulmineamente i suoi artigli».
scheda di Bertini, M., L'Indice 1997, n. 2
Nel corso della sua lunga, intensissima vita - che la portò dagli ambienti della "bohème" 1900 ai palcoscenici del music-hall, dall'Italia della prima guerra mondiale a un Marocco fiabesco e crudele, da una Saint-Tropez ancora paradisiaca alla cupa Parigi occupata dai nazisti - Colette impresse una propria invariabile cifra personale (fatta di candido narcisismo, di spregiudicatezza per nulla ideologica, di appassionata e agile curiosità) a narrazioni molto diverse tra loro. Negli anni del suo "apprendistato" intraprese il ciclo delle "Claudines" sotto la guida del marito Willy, autore di romanzi leggeri che abbozzava e firmava, lasciandone però la stesura a giovani scrittori sconosciuti, per lo più brillanti e affamati; più tardi, emancipatasi da Willy, elaborò costantemente nei suoi libri spunti autobiografici, a volte poeticamente trasfigurati (come nei testi consacrati al ricordo della madre), a volte colti con una tecnica impressionistica affinata negli anni e aderente al reale in una sorta di singolare e inimitabile sinuosità. Troviamo oggi in libreria tre esempi complementari di queste diverse maniere. Di "Claudine a scuola" - romanzo d'esordio in cui, tra le pagine maliziose volute da Willy, si affaccia una Colette adolescente selvatica e un po' felina - Carmen Covito ci offre una traduzione memorabile, spigliatissima nei dialoghi e nel lessico opportunamente svecchiato, accompagnata da una sua ottima postfazione. "Il puro e l'impuro", che l'autrice riteneva il suo libro migliore, torna in edizione tascabile; è la Colette della maturità, lucida e saggia, che percorre i territori segnalati come diabolici dalla morale borghese per scoprirvi verità insospettate e ammirevoli amori. "Il kepì" appartiene invece alla sua ultima stagione: alla Colette che, dalla Parigi della guerra, fa rinascere, in una specie di camera oscura, le immagini brillanti della cosiddetta "belle époque", come in Gigi. In questa cornice d'epoca, per nulla convenzionale, vediamo una scrittrice di "feuilletons" che ha passato la quarantina sperimentare per la prima volta, accanto a un giovane ufficiale, l'euforia dell'"amour-passion*; ma ne spezzerà involontariamente l'incanto con un anacronistico gesto sbarazzino che la inchioderà alla realtà del suo melanconico tramonto.
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