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Psicoterapia nel Terzo Reich - Geoffrey Cocks - copertina
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Psicoterapia nel Terzo Reich - Geoffrey Cocks - copertina
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Dettagli

1988
28 luglio 1988
401 p.
9788833904368

Voce della critica


recensione di Tranfaglia, N., L'Indice 1989, n. 3

Il libro di Cocks, apparso tre anni fa in Inghilterra e negli Stati Uniti, è il primo studio, fondato su archivi pubblici e privati oltre che sulla consultazione di un'ampia bibliografia e sulla raccolta di alcune importanti testimonianze dei protagonisti, su un tema di particolare interesse che si potrebbe enunciare pressapoco così: che cosa successe a psicoterapeuti e psicoanalisti delle varie scuole (da Freud a Jung ad Adler) quando Hitler andò al potere in Germania? E quale atteggiamento, a loro volta, essi assunsero di fronte a una dittatura che predicava non soltanto la persecuzione degli ebrei (e molti tra gli psicoterapeuti lo erano) ma anche una concezione coerentemente razzista della scienza medica, come di tutte le altre? È abbastanza noto che Freud fu costretto a lasciare l'Austria quando il Terzo Reich se ne impadron, che la società psicoanalitica da lui fondata fu costretta a cessare la sua attività, che i libri del fondatore della psicoanalisi vennero bruciati nelle piazze e nelle strade dell'Austria e della Germania.
Diverso fu l'atteggiamento e il destino di C.G. Jung che non fu accomunato nella condanna emessa dalla dittatura al suo antico maestro, e continuò a scrivere e a lavorare in stretta collaborazione con gli psicoterapeuti tedeschi. Sulle sue posizioni politiche di quegli anni è aperta da molti anni una controversia che non è qui il caso di affrontare perché ci porterebbe fatalmente lontani dal libro di Cocks.
La ricerca dello studioso americano, professore all'Albion College (Michigan), sfiora soltanto i problemi legati agli itinerari personali di Freud e di Jung e vuole piuttosto ricostruire le coordinate del problema evocato all'inizio. Ed è di questo che vale la pena, in quest'occasione, di parlare. "In questo libro - avverte Cocks a pagina 20 in un capitolo iniziale dedicato a sintetizzare le tesi principali dello studio - non si sostiene che la Germania nazista abbia costituito un ambiente favorevole alla pratica della psicologia medica o al progresso della scienza, o della cultura o delle attività umane in genere; neppure si sostiene che gli psicoterapeuti del Terzo Reich siano in qualche modo degli eroi o dei martiri misconosciuti. Si sostiene però che durante il Terzo Reich la psicoterapia non solo sopravvisse, ma conseguì risultati non trascurabili sia dal punto di vista professionale sia da quello istituzionale, e che pertanto la psicologia medica come entità professionale istituzionale si trovò, sotto il nazismo, in una situazione assai diversa da quella ipotizzata sino ad oggi, e che del resto non era illogico attendersi. Un'elevata continuità di sviluppo fu mantenuta sia dopo il 1933 che dopo il 1945, nonostante la distruzione di singole carriere, la violazione di alcuni aspetti dell'etica professionale e il diffuso malessere che caratterizzò in genere la vita nella Germania di Hitler".
Una tesi di questo genere va contro un luogo comune storiografico abbastanza consolidato che sottolinea, da un lato, gli aspetti più compiutamente "totalitari" del Terzo Reich rispetto agli altri regimi di tipo fascista affermatisi in Europa tra le due guerre mondiali, dall'altro la situazione di stasi del progresso scientifico in quasi tutti i campi del sapere durante i dodici anni del regime nazista e di persecuzione delle teorie che non potevano essere ridotte al dogma razzista imperante nella Germania di Hitler, di Goebbels e di Rosenberg.
Per darne una dimostrazione persuasiva, l'autore ha svolto un lungo lavoro di scavo archivistico e bibliografico sulle riviste specializzate, ha interrogato molti psicoterapisti (con questa espressione l'autore include sia gli psicoanalisti che si rifacevano a Freud, Jung e Adler, sia gli psicologi indipendenti o eclettici che applicavano forme di analisi personale eterodossa) che hanno esercitato la loro professione nella Germania nazista ed è giunto al giudizio complessivo che abbiamo citato, sulla base di numerosi elementi di fatto. Il primo riguarda la storia delle istituzioni che si occupavano di psicoterapia. Nel 1926 due psichiatri tedeschi, Robert Sommer e Vladimir Eliasberg, fondarono la società medica generale per la psicoterapia che si propose di raccogliere tutti i medici (escludendo dunque chi non fosse abilitato alla medicina) che facessero uso di ogni tipo di terapia psichica nella loro pratica professionale. Due anni dopo la società venne riconosciuta ufficialmente e nel 1930 iniziò la pubblicazione della rivista "Zentralblatt fur Psychoterapie". Tra i membri della società spiccano i nomi di C.G. Jung, Alfred Adler, George Groddeck, Karen Horney. La società psicoanalitica tedesca, legata a Freud, non riconobbe la nuova associazione
Quando Hitler andò al potere, la società medica generale temette, non a torto, di essere soppressa dai nazisti e diede vita a una società medica generale tedesca per la psicoterapia, a carattere nazionale e non più internazionale come la precedente. Non solo: i dirigenti della società internazionale scelsero come presidente della sezione tedesca il dottor Matthias Heinrich Göring, neuropatologo a Wuppertal e psicoterapista, ma soprattutto cugino di Herman Göring, in quel momento numero due della gerarchia nazista e potentissimo in Prussia. Fu, a quanto sostiene Cocks, la mossa vincente giacché "sotto l'ombrellone protettivo del nome Göring, la psicoterapia poté sopravvivere e persino prosperare sino al 1945".
Che questo di fatto avvenne è provato, secondo lo studioso americano, dal fatto che nel 1945 la pratica professionale psicoanalitica riprese senza interruzione e molti psicoterapisti e psicoanalisti che avevano esercitato nei dodici anni precedenti vennero regolarmente accolti nelle società internazionali che facevano capo a Freud, Jung ed Adler. Ironia del destino, quando l'Istituto psicoanalitico di Berlino, da cui si erano già dimessi i membri ebrei per evitarne l'immediata soppressione all'indomani dell'avvento nazista, fu messo in liquidazione, su indicazione del ministero degli interni del Reich venne incorporato dall'Istituto di Göring. Così fu il regime medesimo ad associare psicoanalisti (i pochi rimasti ad esercitare) e psicoterapeuti nella medesima istituzione.
Un altro elemento che giocò a favore della sopravvivenza della psicoterapia (e della psicoanalisi al suo interno) fu, afferma lo studioso, il desiderio del regime di "curare e controllare gli aspetti irrazionali annidati nelle insondabili profondità della psiche degli ariani razzialmente puri dotati di forza e volontà di carattere 'superiori' e costituenti la larga maggioranza della popolazione tedesca". La psicoterapia, una volta depurata dell'impurità provocata dalle teorie freudiane o adleriane e dalla presenza di psicoterapeuti ebrei, parve rispondere assai meglio della psichiatria a queste esigenze, tanto che istituzioni centrali dello stato hitleriano, come il Fronte tedesco del Lavoro, l'Aeronautica militare e il Consiglio del Reich per le ricerche, intervennero per molti anni per fornire all'Istituto Göring mezzi e sostegni organizzativi necessari per svolgere il proprio lavoro fino agli ultimi mesi che precedono il crollo del Terzo Reich.
Cocks non nega (anche se, a mio avviso, tende a sottovalutare) il prezzo dell"'adattamento" degli psicoterapeuti tedeschi alle regole del regime, e racconta la vicenda di cui fu protagonista il dottor John Rittmeister, direttore della clinica per pazienti esterni dell'Istituto Göring: arrestato il 26 settembre 1942 dalla Gestapo e accusato di appartenere alla "Rote Kappelle" (la cosidetta "Orchestra rossa", un gruppo clandestino antinazista), fu condannato a morte e giustiziato nella prigione SS di Plotensee il 13 maggio 1943. Per Cocks inoltre "gli psicoterapeuti fecero troppe concessioni al nazionalsocialismo e sacrificarono principi sacrosanti al consolidamento della loro professione". Inoltre non c'è dubbio sul fatto, ammesso anche dall'autore, che malgrado le ricerche svolte finora, è probabile che le violazioni più gravi dell'etica professionale avvenute in quegli anni nel campo specifico della psicoterapia non siano emerse n‚ dai documenti n‚ dalle testimonianze raccolte; che ci sia insomma una "zona grigia" destinata a rimanere tale, e che può dare adito appunto a una visione meno pessimistica di tutta la vicenda. Cocks, del resto, mette sul piatto della bilancia sia il fatto accertato che gli psicoterapeuti, a differenza degli psichiatri e degli psicologi accademici, non furono impiegati n‚ nel compito odioso di offrire una definizione tipologica della razza ariana superiore, n‚ a prender parte al programma di difesa biologica della razza, che comportò (come è abbondantemente documentato dalla storiografia) la sterilizzazione e l'eutanasia; sia i casi di quei malati renitenti alla leva che senza il loro intervento sarebbero stati giudicati come simulatori e giustiziati.
Lo studio di Cocks è di grande interesse per un aspetto non irrilevante della società tedesca sotto il dominio nazista, ed è ricco di esempi e di vicende particolari che restituiscono il clima di "dissimulazione" o "nicodemismo" esercitati da psicoanalisti e psicoterapeuti sotto il regime; l'autore insiste anche a ragione, sul fatto che tutto ciò poté avvenire anche perché molti tra i medici dell'Istituto Göring erano "apolitici" o addirittura sinceramente favorevoli alla dittatura hitleriana nei suoi aspetti fondamentali di esaltazione della grandezza tedesca e di "ordine nuovo". Terminata la lettura, ci si chiede fino a che punto l'immagine che emerge dall'indagine di Cocks risponde a quello che realmente avvenne nel Terzo Reich. E anche quali siano le implicazioni più generali di un lavoro come questo: si tratta di un'ulteriore prova delle difficoltà di Hitler e del gruppo dirigente nazista a realizzare lo stato totalitario teorizzato nei testi e nei discorsi del Fuhrer? O questo è un aspetto di quel "Modernismo reazionario" studiato di recente da Jeffrey Hertz (ed. Il Mulino) che vede nella Germania nazista l'esempio di un'unione malsana tra "una tecnologia moderna e una concezione reazionaria"? È difficile rispondere categoricamente a queste e ad altre simili domande, ma l'interesse del libro di Cocks, al di là dei suoi difetti (tra l'altro l'esposizione è ripetitiva e la traduzione avrebbe potuto forse attenuare o eliminare l'inconveniente) sta proprio in questa sua capacità di suscitare interrogativi e ulteriori curiosità.

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