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La proibizione dell'uso di sostanze stupefacenti appare a molti come un fatto ovvio, anzi come un gesto dovuto da parte di ogni stato che voglia tutelare davvero i propri cittadini. L'atteggiamento proibizionista parte dal presupposto che il consumatore sia per definizione un individuo socialmente nocivo, votato all'autodistruzione, pericoloso per sé e per gli altri. Ma questo presupposto è da un lato parziale, dall'altro difficilmente eliminabile attraverso la repressione. Molti consumatori, infatti, non sono affatto persone poste ai margini della convivenza civile, e anche per i tossicodipendenti sospinti verso la marginalità sociale e la pratica criminale, è difficile stabilire se - in mancanza di un mercato degli stupefacenti - non avrebbero comunque trovato altre forme per ottenere la propria autodistruzione.In realtà, il dilagare dei narcotici illegali sembra essere particolarmente inquietante proprio in nome della loro illegalità. Ed è questa osservazione a suggerire un insieme di domande, tanto al ricercatore quanto al riformatore sociale. Non è forse proprio il proibizionismo ad avere creato e strutturato un mercato criminale che si presenta oggi in molti paesi come uno dei più forti fattori di destabilizzazione economica e civile? E quali sono le logiche economiche e le modalità di funzionamento di questo particolarissimo mercato?Il libro ripercorre la storia dei «proibizionismi» anti-alcol e anti-droga, analizza i flussi del traffico clandestino, studia la vicenda dei «cartelli» internazionali, e si concentra infine sull'analisi del mercato italiano, della sua vertiginosa crescita recente, delle sue connessioni con il circuito criminale mafioso.
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