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1994 - Mostra d'arte cinematografica di Venezia - Leone d'oro al miglior film
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PARTE II - Il demiurgo Manchevski si prende gioco persino del tempo manipolandolo a suo piacimento (la storia inizia dalla sua fine e termina col suo inizio) e attraverso una sorta di teorema ne dimostra la duplice fisionomia: il Chrònos, inarrestabile, che divora tutto, “logico”, sequenziale e consequenziale e il Kairòs, il tempo della Grazia, il tempo di Dio, lento, ieratico, “illogico” e gravido di speranza. Il Chrònos è rintracciabile nella spirale di odio che avvolge i racconti, nelle armi che vi dominano e nel cielo plumbeo che sovrasta il mondo. Il Kairòs si concretizza nella figura di Aleksander (Alessandro il macedone) che “l’onnipotente” Manchevski accosta alla figura del Re dei re (la nascita dell’agnello poco prima della morte di Aleksander, ma anche la scritta sull’abside della chiesa, fin dalle sue prime apparizioni, I’m the way, the truth, the life), nel suo lento “calvario” intellettuale ed infine nel doloroso supplizio per la salvezza di Zamira (l’umanità?). La morte di Aleksander coincide con l’arrivo della pioggia, non il diluvio minacciato dal cielo tenebroso, ma l’acqua battesimale aspersa per la riqualificazione dell’umanità: al suo contatto gli uomini sembrano trasfigurarsi e, mentre Zamira continua la sua fuga alla ricerca della salvezza (negata nel primo atto), noi cominciamo a pensare e credere che quell’omicidio non si consumerà mai più. Il regista onnisciente della focalizzazione zero, dopo aver svelato tutti i segreti (le scene iniziali coincidono con quelle finali, fatta eccezione per alcuni importanti particolari) e sciolto tutte le riserve, ci restituisce un tessuto narrativo e simbolico dove ogni storia e ogni segno (ri)acquistano la propria dimensione profetica e trasformano un racconto etnico e morale in una straordinaria parabola umana ed escatologica.
PARTE I - Il cielo è cupo, affollato da nubi che minacciano continuamente la tempesta: l’Oriente guarda verso Occidente con diffidenza e l’Occidente verso Oriente con indifferenza, si preparano nuove crociate in nome di chissà quale Dio. Medioriente, Balcani, Afghanistan, Iraq, Pakistan, Cecenia... Il tempo e la storia sono destinati, ineluttabilmente, a ripetersi e il cerchio condannato a chiudersi. Si può arrestare il corso del tempo? Si può uscire fuori da un cerchio chiuso? Nello stesso anno in cui Prima della pioggia riceve il Leone d’oro a Venezia, a Cannes si affermano altre due straordinarie opere ambientate nella penisola balcanica: Underground, del serbo-bosniaco Emir Kusturica e Lo sguardo di Ulisse, del regista greco Theo Anghelopoulos. La critica accreditata definì senza alcun indugio, i due film, l’Iliade e l’Odissea dei balcani, così come oggi anch’io non esiterò a chiamare Prima della pioggia, il Vangelo balcanico. Prima della pioggia, opera prima del regista macedone Milcho Manchevski, si divide in tre atti: parole, volti, immagini. Ogni racconto si incastra col successivo fino a determinare una struttura circolare e così Zamira (nel primo episodio), Nick (nel secondo) e Aleksander (nel terzo) si rincorrono attraverso la loro morte. “La guerra non è guerra, finché il fratello non alza il braccio sul fratello”. Rispolverando il “mito” di Caino e Abele, l’autore ci mostra, con dolore, la morte come negazione della vita: ogni singola morte si consuma, infatti, davanti a un simbolo della vita (l’albero, la donna incinta e il bonsai, ancora un albero, ma stavolta più grande), del resto tutto il film è pieno di negazioni e contraddizioni. In parole è proprio la parola a essere negata; in volti il regista indugia sul viso sfigurato di Nick; in immagini Aleksander strappa la foto che ha determinato la sua “presa di posizione” archiviandola, con dolore, nella sua memoria (“La mia macchina fotografica ha ucciso un uomo”).
Film importante per intuire ciò che è stato il conflitto nei Balcani. Amore,odio,violenza si intersecano prima che la guerra sconvolga le vite di tutti.
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