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Un titolo che potrebbe evocare nel lettore suggestioni alla Thomas Bernhard per il nuovo lavoro, in forma di racconto, che Andrea Canobbio pubblica presso nottetempo. Presentimento, con Bernhard, ha a che fare almeno per la centralità della malattia. La malattia come esperienza del sé, e la sua puntigliosa, quasi maniacale, registrazione hanno sfondato le barriere di ciò che era consentito in letteratura, abbattendo uno dei grandi tabù che investivano la drammatizzazione del soggetto narrante. Da quando Stendhal, nella sua immensa mole di materiale biografico, l'ha tematizzata e declinata nelle mille, diverse, forme assunte dai suoi calcoli renali, l'universo borghese del mal di pancia ha assunto dignità letteraria fino ad arrivare a quella straordinaria indagine sulla salute e i suoi risvolti menzogneri che è la storia di Zeno Cosini (a cui sembra assomigliare negli accenti di falsa coscienza il protagonista di Canobbio).
In forma diretta, senza nulla concedere a eventuali difficoltà d'identificazione, la descrizione analitica dei momenti topici delle porzioni di tempo che separano chi scrive dal sopraggiungere di una data fatidica l'11 settembre 2001 ben si inserisce in questa tradizione. Da allora, è naturale, il vocabolario tecnico adottato per connotare i malesseri di origine psicologica è cambiato (questa evoluzione involuzione della lingua, i suoi derivati di pseudoscientificità, certa facilità di definizione infastidiscono lo scrittore, che si sforza di non adoperarli) e, da scrittore appunto, ci sta scomodo, rilutta a chiamarsi depresso, preferisce cercare parole più evocative, più accettabili da chi di scrittura propria o altrui ha deciso di campare. Meglio usare impercettibili sfumature, come attacchi di panico, immotivate paure, incapacità di vivere, piuttosto che farsi imbrigliare dalle maglie delle psicoterapie. Perché sin da studente, chi racconta ha sofferto di questi vuoti ma, con la testardaggine un po' ottusa di chi non vuole chiedere aiuto, di chi non alza mai la voce, e preferisce fare tutto da solo, ha pensato di averli ormai superati, di avere dato corso a un'esistenza normalmente felice. Peccato però che dopo anni, a volte annunciati, a volte no, queste punte di dolore, di perdita assoluta, si ripresentino con insistenza via via maggiore. I viaggi in aereo, ma poi anche quelli in treno o in traghetto o in automobile, il restare casualmente imprigionato in un gabinetto pubblico, diventano cause scatenanti, motivi, o forse pretesti, per una nuova crisi. E ancora resiste a fare uso di farmaci, come se ingoiare un antidepressivo fosse una resa, una capitolazione di fronte alla superficialità dei palliativi.
Educata da un padre malinconico (leggi profondamente depresso) e una da madre esatta (leggi portata a coprire la verità), la voce di Canobbio rifiuta di riconoscere il suo male e sceglie una terza via, quella dell'ossimoro. Le sue sono "paure razionali" quindi contenibili, è uno scrittore, afferma, ma solo a mezzo tempo, è un editor importante, ma a mezzo tempo, per star fuori dalle responsabilità. Una specie di immaturità protratta, di doppia identità, di incertezza prolungata: un sistema che, inevitabilmente, finisce per scoppiare proprio poco prima e subito dopo l'attentato alle Torri gemelle. Per un gioco di coincidenze, le date si rincorrono e ritornano quasi a voler dare ragione al narratore che nell'estensione del suo proprio dolore a una più vasta partecipazione, al panico collettivo, sente, meglio prevede, meglio presente la fine del mondo. Ma se la fitta rete dei fatti traumatici del pre 11 settembre arriva a prenderlo alla gola tanto da impedirgli di restituire la verità di quei giorni a New York, è nello strano silenzio che segue che lo scrittore può, infine, proprio con la sua testimonianza, trasformarsi in uomo a tempo pieno. La forza dell'esperienza, dell'essere stato lì, è lo spartiacque che segna un cambiamento per questo editor part time, scrittore part time (e mezzo marito, mezzo padre, mezzo figlio come, in più punti, chi scrive ripete, quasi a voler trovare una sorta di blanda giustificazione). Vincendo per sempre "il demone dell'analogia" di cui vittima preferita è lo scrittore.
Andrea Canobbio propone, segnando un passaggio di genere e di stile rispetto ai suoi romanzi precedenti, una formula molto riuscita e scientifica di fare autobiografia. In una temperie in cui l'io sembra essere finalmente liberato, l'autore dimostra quanto sia invece permeabile alle convenzioni perché possa essere detto e scritto. Stupito, con il Kafka dei Diari, di come "a quasi tutti coloro che sanno scrivere sia possibile, nel loro dolore, oggettivare il dolore".
Camilla Valletti
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