Nato nel 1947 a Roma su iniziativa della scrittrice Maria Bellonci e di Guido Alberti, proprietario della casa produttrice dell’omonimo liquore, il Premio Strega è una sorta di Nobel per la letteratura italiana. Nel suo albo d’oro compaiono i nomi più prestigiosi delle patrie lettere: da Ennio Flaiano a Elsa Morante, da Cesare Pavese ad Alberto Moravia, da Natalia Ginzburg a Umberto Eco, da Dacia Maraini a Sandro Veronesi. Nella sua storia non sono mancate tantomeno le polemiche, che da sempre lo contraddistinguono, i mancati vincitori eccellenti, come Italo Calvino (entrato nella cinquina cinque volte) e Pier Paolo Pasolini (ritiratosi nel 1968 con coda polemica), e i vincitori a sorpresa, come Ada d’Adamo nel 2023, con l’assegnazione postuma. D’altronde, la proclamazione del vincitore appare sempre in biblico tra libere scelte, pressioni di ogni tipo e (come negarlo?) delicati equilibri in seno ai vari gruppi editoriali. Un premio, un rito in grado di decretare non solo il miglior romanzo dell’anno ma soprattutto di fare la fortuna degli editori e di determinare il successo a lungo termine di un autore lanciandolo nell’olimpo dei grandi nomi, quasi sempre cambiandone la vita e la carriera. Un premio che negli ultimi anni ha avuto il merito di rinnovarsi e di aprirsi – per regolamento – alle case editrici medie e medio-piccole. Arricchito da interviste e testimonianze di alcuni dei suoi storici protagonisti, il libro di Marco Trevisan traccia la parabola, col piglio di un romanzo, di un premio letterario che è diventato col tempo lo specchio dello stato di salute della nostra letteratura, la cartina di tornasole dello stato dell’arte e dello spirito dei tempi, l’indice più rappresentativo dei mutamenti di gusti, di lingua e di tradizioni del nostro Paese.
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