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Viviamo in tempi che proclamano a gran voce la frattura esistente tra mondo e soggettività, interno ed esterno, cultura e natura. Una disarmonia che ferisce l'individuo e la collettività, rendendo entrambi prigionieri di una condizione esistenziale di impotente sterilità. In tale terreno, scabro e irredimibile, si muovono i versi di questo psicanalista romano al suo primo volume di poesia. Strumia si rivela soprattutto nella sua fragilità di uomo scalfibile e votato alla sconfitta ("Sono nato scoperchiato // mi scopro nuovamente/ qualcosa senza guscio./ E non so che fare"; "sono un verme nel becco del mondo"; " io mi so mezza cartuccia"; "io che sono esperto di fughe e sottrazioni"), se il vocabolo a più riprese ripetuto nei suoi versi è proprio "paura": "anche il suono/ delle foglie fa paura", "Ho diritto alla paura", "la paura morde la pelle". L'unica àncora di salvezza è l'osservazione disincantata e asettica di ciò che ci circonda, dall' immensamente grande (universo, nebulose, eoni, galassie) all' infinitamente piccolo (batteri, insetti, microrganismi), con una sensibilità particolare sia per la bellezza folgorante, sia per ciò che appare inquinato, corrotto, fangoso (le pozzanghere, appunto). E non c'è nessuna visone laica o paganeggiante, bensì un continuo rimando a un'emotività cattolicamente intrisa di senso del peccato e della colpa. Anche la professione intellettuale è vissuta come un allontanamento dalla sana vitalità del "mondo scanzonato" del lavoro manuale, e persino la psicanalisi di cui vive Strumia è quasi un raggiro : "Un altro giorno da brigante/ diligente dondolando sui rami ad aspettare/ i pochi viandanti smarriti per la via". Questo risentimento della coscienza finisce per esprimersi in esacerbati manifesti di intenti, in programmatiche dichiarazioni di fede o di pensiero che risultano tra le prove meno riuscite del volume.
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