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Ci sono almeno tre ragioni che fanno di Positively 4th Street un libro davvero speciale, soprattutto all'interno del panorama ricco ma spesso piuttosto pedante (e pesante) della pubblicistica musicale.
La prima è il suo contesto. David Hajdu sceglie di raccontare una storia del folk americano, soffermandosi soltanto su un determinato e ristretto arco temporale: dalla fine degli anni cinquanta al 1966. A Hajdu non interessa scavare nelle radici del genere (Guthrie, Leadbelly, il musicologo Lomax) e neanche analizzarne il ruolo attuale, ancora di primo piano in alcune zone degli Stati Uniti. Il suo obiettivo si fissa invece su quel breve e magico lasso di tempo in cui il folk si trasformò da culto di nicchia a fenomeno popolare, saltando dalle coffee houses di Cambridge e del Greenwich Village alle grandi arene e ai vertici delle classifiche, anticipando l'esplosione del rock e incarnando un'ultima variante del sogno americano prima del disastro del Vietnam e della crisi d'identità del decennio successivo.
La seconda ragione sta tutta nella tecnica di Hajdu. Collaboratore del "New York Times Magazine", di "Vanity Fair" e del "New York Times Review" e già acclamato biografo del jazzista Billy Strayhorn (Lush Life), l'autore non solo lavora preziosamente sulle fonti, mettendo insieme interviste e dichiarazioni inedite raccolte in quasi trent'anni di ricerche, ma le organizza in maniera tale da incastrarle perfettamente nel racconto, senza incepparlo o appesantirlo e arrivando a mascherarne in più parti la sua natura di documento storico.
Nonostante la discreta lunghezza, Positively 4th Street si legge infatti con l'urgenza e il piacere di un romanzo. Ed è qui che interviene la terza ragione del suo valore: i protagonisti. I quattro ragazzi "che hanno cambiato la musica" sembrano usciti dalla fantasia di uno scrittore bohèmien. C'è l'artista con la A maiuscola, talentuoso e a tratti arrogante (Bob Dylan), c'è la donna che maschera con forza e carisma da palcoscenico le fragilità più personali (Joan Baez), c'è l'incontenibile animatore di feste e ritrovi culturali, segnato da un destino tragico (Richard Fariña), c'è la giovanissima musa dall'ingenuità e dal fascino quasi lolitesco (Mimi Baez Fariña). E a formare il tessuto del racconto, ci sono le loro relazioni, i loro amori, i loro litigi e le loro canzoni.
Se si esclude forse solo una comprensibile e affettuosa simpatia per lo sfortunato Fariña, Positively 4th Street è un libro molto equilibrato. Hajdu lascia fuori dalle pagine qualsiasi forma di ruffianeria e non si presta neanche al gioco di legare troppo (e così piegare) i quattro protagonisti ai "grandi eventi" dell'epoca, che rimangono sempre sullo sfondo. Della morte di Kennedy non se ne parla quasi, il Vietnam è una tragedia ancora troppo piccola e lontana dall'immaginario collettivo per meritare più di una fuggevole citazione. Anche la pratica relativa al celeberrimo concerto di Dylan al festival di Newport del 1965, quello del "tradimento" del folk acustico in favore del rock elettrico e della conseguente ira del pubblico, viene sbrigata in un paio di paragrafi e svestita di quell'alone quasi sacrale che fino a oggi l'aveva sempre accompagnato su libri, articoli e saggi. Il mito di quell'epoca, sembra spiegare Hajdu, non deriva da un concerto, da una canzone o da una marcia della pace. Ma dall'alchimia di quattro ragazzi particolarmente dotati (gifted, come si dice con maggior forza evocativa in inglese), che incrociano le proprie strade al posto giusto e al momento giusto. E che insieme scrivono alcune delle pagine più entusiasmanti della storia della musica popolare (e della società) americana degli anni sessanta.
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