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Anno edizione: 2013
Anno edizione: 2022
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La provincia di Vicenza, dopo aver letto Trevisan, la guarderò con un occhio un po' inquieto....a forza di leggere i suoi libri te ne viene la nausea. Proprio ieri un ragazzotto di tal provincia ha fatto fuori i genitori, per gli schei... Ma la provincia , forse, è molto simile ovunque. Esile spunto narrativo, rafforzato dalla complessità interiore, non riesce a sollevarsi dalla narrazione angosciata e angosciosa di rapporti umani difficili e disgrazie familiari. In effetti la somiglianza con Bernhard è un po' imbarazzante, ma non credo si sia trattato di imitazione vera e propria, quanto di comunità di sentire.
Questo libro descrive perfettamente alcune realtà che percepisco quotidianamente e le sue storie, seppur alcune volte possano sembrare banali o stereotipate sono invece tristemente reali perchè la vita quotidiana non è fatta di fatti eccezionali fuori dal comune ma è dolorosa proprio nella sua banalità, nella sua routine. Non mancano comunque episodi più movimentati degni di libri di altro genere come la guida contromano a tutta velocità o il salto con virata in aria sul fiume! E' un plagio di Bernhard? Non credo proprio, io non ho mai letto un libro di Bernhard uguale a questo, posso muovere solo una critica verso alcune pagine troppo simili, quasi copiate , come quelle in cui scrive degli imprenditori vicentini ma sono davvero l'unica cosa che potrebbe definirsi plagiata di tutto il libro, tutto il resto è opera sua ed è originale e nuova per me Inoltre Trevisan non ha mai negato di trovare in Bernhard la sua più grande fonte di ispirazione e non per altro chiama, mi viene da pensare per rendergli "omaggio", il protagonista dei suoi libri Thomas. Come potrei non ringraziare Trevisan per avere scritto queste fantastiche pagine ma criticarlo stroncando i suoi libri perchè ha copiato Bernard? Io non ci riesco, lo ringrazio invece!
Ho letto il libro per caso. L'ho trovato utile per capire come pensano le persone che vivono un disagio esistenziale profondissimo. Si dice nei commenti che è un imitatore dell'austriaco Bernhard, di cui ho letto un libro che mi ha fatto cadere in depressione. Mah! Non aggiungo altro. Certo, però, che ci sono in Italia autori "fortissimi" e originalissimi, ma trascurati. Il vero peccato è questo.
Recensioni
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E siamo così arrivati al terzo romanzo, o non-romanzo, se si vuole, di Vitaliano Trevisan. Non-romanzo, come precisa il narratore stesso ("questo scritto non sarà un romanzo"). La voce enunciante di Thomas narra in prima persona, solo di rado interrotta dal breve inciso diegetico "scrive Thomas" secondo l'uso dell'autore già visto nei precedenti Il mondo meraviglioso e I quindicimila passi. Un inciso che ha la funzione di introdurre lo spaesamento della terza persona nell'identità della prima: un primo meccanismo di spiazzamento che mette in questione la provenienza della voce, quasi a incrinare l'apparente modulo del memoriale autodiegetico (e nell'epilogo arriva anche una incongrua terza persona grammaticale come segnale dell'estraneità del soggetto a se stesso). L'identità di questo personaggio-narratore sempre sottilmente esautorato da quell'inciso che insieme ne marca l'identità, per altro dubbia ("scrive Thomas") è continuamente messa in crisi: una crisi sempre tematizzata (fino all'estremo dello sdoppiamento con il fratello morto del protagonista dei Quindicimila passi), sempre bilicante sul pozzo della follia (i protagonisti-narratori di Trevisan hanno in comune l'esplicita codifica della patologia psichica che li insidia e informa a un tempo: psicosi maniaco-depressiva), ma già suggerita dal nome stesso del narratore. Thomas, come Thomas Bernhard, ovviamente. Ma di questo, tra poco.
Non ha molto senso raccontare la trama del Ponte, dal momento che la sua rilevanza nell'economia dell'opera è secondaria. Comunque: una morte presente (del cugino-amico Pinocchio) riporta il narratore, esule in Germania, a una morte passata (quella del figlio di Pinocchio) e all'orrore della vita familiare e sociale a Vicenza, nonché della miseria culturale in cui è caduta l'Italia. Il ritorno (mentale e fisico) è però fatale a Thomas, il quale finisce per chiudere i conti soltanto attraverso una ripetizione del passato che trova il suo fine solo nella fine, nell'autoannichilente adesione alla chiamata del vuoto di tutta una vita.
I fatti salienti del plot sono però sommersi dal soliloquio rammemorante del narratore, e intrecciati con feroci invettive contro le strutture politiche, sociali e culturali del paese guasto: e contro le mostruose coazioni della famiglia italiana, e della propria famiglia in particolare. L'intento è esplicitamente declinato: "Cercare di dare un senso al mio proprio frammento di presente in quanto presente in cui il passato non smette di crollare". Ma è un compito irraggiungibile, perché la situazione psichica rappresentata non ammette alcun senso che non sia la fine in cui inabissarsi, schiacciati dal passato.
Ora, è piuttosto stupefacente come parecchi recensori (ha fatto eccezione Trevi sul "Manifesto") si siano affannati a "prendere sul serio", per così dire, il narratore e la sua intenzione mimetica, e per di più a stigmatizzare la dipendenza di Trevisan dal modello di Bernhard. In particolare, Franco Cordelli, in uno sfocato intervento sul "Corriere" del 29 marzo 2007, ha accusato Trevisan di imitare senza scarti Bernhard e agendo con un pratico appiattimento di narratore e autore di "inanellare una sequela di luoghi comuni della lamentazione italiana", vituperando "l'Italia come lo si sente fare in treno, prima o seconda classe". A parte il fatto che I quindicimila passi non è il primo libro di Trevisan, e Il ponte non è il quarto (evidentemente l'urgenza polemica non ha giovato alla precisione), questo ragionamento ha un'aria troppo rudimentale.
Intendiamoci. Magari Cordelli ha ragione, e questo è solo lo sfogo di un autore provinciale, cresciuto in una subcultura cui si è sottratto grazie all'azione di un grande autore (Bernhard), che nelle sue mani diventa una sorta di Lemmonio Boreo. Se invece come credo Cordelli ha torto, le banalità ("pensieri banali", lo scrive anche Trevisan a corollario dell'invettiva di Thomas contro i giornali italiani: "I giornali di tutto il mondo, da sempre, sono specializzati nel rimestare nella merda, ma nessuno al mondo rovista così volentieri e appassionatamente nella merda come i giornali italiani") sono funzionali al progetto. E difatti anche la banalità della lingua, soggetta a quegli stessi tic tipici dei deprecati quotidiani, se mal si concilia con il mito romantico dell'espressione individuale (Cordelli ad esempio cercava e non trovava "autenticità"), serve a cancellare, a seppellire l'identità della voce (e lo stesso fanno banalità tematiche più raffinate, come il passo sulla necessità dell'oblio mutuato questa volta non esplicitamente dalle Inattuali di Nietzsche). Le invettive non sono che emergenze abreative di pulsioni sadico-anali, proprie della configurazione psichica del narratore, che non può possedere una voce autentica, e neanche un simulacro di essa, perché non ha un'identità sufficientemente forte e appaesata.
Per questo il narratore scrive (scrive: è uno scrittore, e il Ponte è già nel testo un manoscritto) come Bernhard, per questo si chiama Thomas: la sua ventriloquia è una forma di esistenza mancata. Thomas compra il primo libro di Bernhard il giorno dopo la sua morte: e ne è posseduto. La voce dell'altro si instaura nella sua (che è poi la voce va da sé di una controfigura dell'autore): dissociazione che è tipica di tutti i personaggi di Trevisan. D'altronde, a parte le strutture stilistiche (ad esempio i vari "così mia madre" dopo il discorso indiretto) e tematiche prese a prestito da Bernhard, ci sono continui particolari che riconducono il personaggio-narratore alla figura e quasi alla mitografia dello scrittore austriaco. Strano che nessun recensore, almeno a mia contezza, abbia notato che Hennetmair (l'amico tedesco di Thomas) non sia altri che Karl Ignatz Hennetmair, vicino di casa di Bernhard (e agente immobiliare, come nel Ponte), colui che per un anno descrisse in un diario segreto la vita quotidiana del misantropo chiuso nel suo cascinale a scrivere Correzione (il testo che, insieme al capolavoro Estinzione, più è presente alla memoria di Trevisan, qui e altrove). Quindi non è Trevisan che imita Bernhard: è il narratore del Ponte che è agito dalla voce di Bernhard.
Eppure, c'è uno scarto. Come in Bernhard, esiste un tentativo (sadico) di mettere ordine, ma la poetica dell'esagerazione non è spinta all'estremo, proprio perché l'identità dell'io è più debole. Il crollo, l'incoercibile ritorno melanconico del passato, la ripetizione (sottotitolo della parte centrale) del passato nel presente schiacciano il protagonista come non capita ai personaggi di Bernhard, che sono in qualche modo vittoriosi nella loro sardonica risata nichilista e nel loro solipsismo: non c'è in Trevisan la radicalità della demolizione e quindi neanche il grottesco liberatorio di Bernhard: proprio perché l'etimo melanconico impedisce di ridere, al limite di praticare la gioia davanti alla morte. L'ambivalenza emotiva nei confronti della famiglia, la necessità di uccidere che sanziona l'indissolubilità del legame sono cosa diversa dalla smisurata ferocia "fredda" di Estinzione o dalla radicalità del delirio di Correzione o Perturbamento. Proprio in questa sottile distanza dalla voce di Bernhard c'è un segnale di incrinamento dell'identità: l'impossibilità di una identità narrativa, che nasce proprio dall'incapacità di confrontarsi con il potenziale nulla che sono gli altri, per chiudersi nel proprio nulla (un nulla squallido melanconico , privo dell'eroismo delirante schizofrenico di un Roithamer), nell'annichilimento dell'io cui conduce l'inesorabile ritorno dei propri traumi e del proprio senso di colpa.
Insomma, Il ponte non è una specie di pamphlet che denuncia l'evidente stato di desolazione morale di una secondaria provincia dell'impero: è la rappresentazione di uno dei nodi centrali della condizione umana, cioè lo stare male nella propria pelle, e di una situazione psichica (la temporalità bloccata e la depersonalizzazione melanconica) che è anche allegoria di una situazione sociale e politica. È una delle ragioni, non l'ultima, per cui Trevisan merita un posto di assoluto rilievo nella narrativa italiana degli ultimi vent'anni.
Paolo Zublena
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