Sogliono dire gli Spagnuoli: Quien no ha visto Sevilla, — no ha visto maravilla. Penso che almeno altrettanto, dispensandosi dalla rima, si possa affermare del golfo di Napoli, o sottoscrivere al vecchio ma espressivo adagio: Vedi Napoli e poi mori; come all’incirca usava sclamare la gioventù d’Atene dinanzi alla bellezza dell’eteria famosa di Pericle: Una notte con Aspasia e poi morire. Nulla di più bello e ridente, nulla di più incantevole del suo gran panorama, sia che ti si presenti venendo per mare dal ponte di un battello a vapore, sia che a te si spieghi dinanzi, come a volo d’uccello e come io l’ho ammirato, prima dal terrazzo di San Martino, il più leggiadro chiostro ch’io m’abbia mai visto e che i seguaci di San Brunone hanno saputo procacciarsi, e poscia più su dal più alto ballatojo di Castel Sant’Elmo, che sovraggiudica la città. Questo vaghissimo seno, a cui fanno tutt’intorno corona monti e colline verdeggianti, — fra cui il vecchio Vesuvio, che anche allorquando riposa o si cinge di nubi la testa, libera dalle sue fauci tremende bianchi buffi di fumo, sì che a que’ del paese ei fa dire che pipa, — si distende siccome anfiteatro, per una parte incominciando dal Capo Miseno e via via, seguendo que’ pittoreschi sobborghi di Pozzuoli, Posilipo e Mergellina, trova la popolosa città partenopea, che par di poi si prolunghi per San Giovanni e Portici, Resina e Torre del Greco, Torre dell’Annunziata e Pompei, e si chiude dall’altra con Sorrento, — il leggiadrissimo paese che già consolava gli affanni del Cantore della Gerusalemme Liberata, nella casa della sorella sposa a Marzio Sersale, — e col vicino promontorio di Minerva, sede un giorno delle Sirene, secondo l’antica mitologia. Gli è tutto un miracolo dì terra e di mare; gli è tutto un sorriso di cielo. Anche di cielo: perocchè se le pioggie incessanti che attristarono nel dicembre scorso il zaffiro del nostro firmamento, pur non graziarono Napoli in que’ giorni ch’io mi vi trattenni, colà chiamato dall’amore di un fratello, che testimonio mi voleva alla gioja più santa di sua casa — alle nozze, vuo’ dire, dell’unica figliuola; — nondimeno quattro o cinque di que’ giorni il sereno rifulse in tutto il più puro splendore ed ammirai taluno di que’ tramonti che io per lo addietro avevo scorto in qualche tela smagliante e giudicato traviamento di tavolozza, tanto calde e vaghe erano le tinte, tanto vaporose od accese, violacee e d’oro, sì che l’antica Caprea di Tiberio, che dal mio balcone di Chiatamone vedevo sorgere in bella lontananza davanti, ne fosse tutta di quella luce circonfusa e splendente. Sotto quel cielo, con quell’aere così clemente anche nel verno, io compresi perchè le ubertose campagne che avevo attraversato avessero a quella terra meritato da’ Quiriti il nome di Campania Felice, e perchè il vecchio Plinio lasciasse scritto che Bacco e Cerere si disputassero la gloria d’arricchirla, e i vini della quale producessero l’ebbrezza e fossero famosi per tutta la terra, siccome il falerno, il cecubo, il massico e quel di Celene cantati da Orazio. Con quegli spettacoli di natura io facilmente mi spiegai perchè in Pompei traesse Cicerone a riposarvi gli ozj consentiti dal foro, oppure da’ publici officj; perchè Sallustio vi venisse del pari a dettare le poco sincere, ma eleganti pagine della Guerra di Catilina; Ortensio riparasse nella sua villa di Bauli a trovare amena tranquillità; e Virgilio soggiornasse in Posilipo e vi morisse; e Stazio e Silio Italico e altri illustri vi si ispirassero e le loro ville e le terme vi rizzassero, accorrendo dall’Urbe, i proconsoli a sfruttare le immense rapine fatte nell’Asia ai popoli trionfati, e i Cesari, sitibondi di voluttà e di libidine, quivi si conducessero siccome a più propizio teatro.
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