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Fra il 1926 e il 1941, gli stessi anni in cui andò svolgendo e completando i suoi studi sugli eretici italiani del Cinquecento e sui giacobini italiani, Delio Cantimori collaborava attivamente a riviste come “Leonardo”, “Studi germanici”, “Civiltà fascista”, “Civiltà moderna”. Ad articoli, saggi e recensioni strettamente connessi alla sua ricerca di argomento ereticale e cinquecentesco si affiancavano dunque altri interventi che dichiaravano una viva attenzione alle varie realtà della politica contemporanea – la Germania, l’Italia e l’Unione Sovietica, sostanzialmente, vale a dire, i tre Stati in cui si erano manifestate istituzionalmente la crisi e la trasformazione delle società del primo dopoguerra. In particolare, Cantimori procedeva ad un’indagine comparativa sulle ideologie e sui concetti caratterizzanti che costituivano il presupposto del successo conseguito dai nuovi movimenti politici. Tipico il caso degli scritti sul nazionalsocialismo. Già alla fine degli anni Venti, sulla rivista bolognese “Vita Nova”, Cantimori aveva riflettuto sulla cultura antidemocratica e anti-weimariana in cui tradizioni di matrice ottocentesca, il tema del conflitto mondiale in quanto esperienza vitale (E. Junger), una rilettura di Nietzsche fondata su Ernst Bertram, l’estetismo politico del gruppo intorno a Stefan George, si amalgamavano in quella “rivoluzione conservatrice” nella quale, già prima del nazismo, si era rivelata la “Germania giovane” – così come lo stesso Cantimori aveva titolato la serie dei suoi articoli sull’argomento. Dopo una esperienza diretta della temperie tedesca e, soprattutto, dopo l’avvento del nazismo al potere, Cantimori poteva, infatti cogliere in Carl Schmitt la coincidenza esemplare fra l’ideologia, la dottrina e la forma concreta dello Stato nazista. In questo volume, oltre al gruppo di scritti sul nazionalsocialismo, sono raccolti gli interventi di Cantimori sul fascismo e sul bolscevismo e, in apparenza più eccentrici, quelli sugli statuti […]
recensione di Campioni, G., L'Indice 1991, n. 8
Da molti anni e da più parti venivano sollecitazioni per un'edizione di tutti gli scritti dello storico Delio Cantimori. Oggi la lacuna maggiore è colmata dalla pubblicazione, dovuta all'accurato e serio lavoro di Luisa Mangoni, di un grosso volume che raccoglie la quasi totalità degli scritti dal 1927 al 1942 di "Politica e storia contemporanea". È data così l'occasione per rileggere e far conoscere più diffusamente quella serie di saggi, articoli, interventi, voci di enciclopedia, recensioni sparsi su varie riviste, da "Vita Nova" a "Studi Germanici", da "Civiltà fascista" a "Leonardo" ecc., in cui lo storico veniva svolgendo una riflessione lucida e sempre più sofferta sulla tragica realtà politica e culturale contemporanea. E questo mentre compiva, attraverso peregrinazioni nelle biblioteche ed archivi di mezza Europa, i suoi fondamentali e innovativi studi sogli eretici italiani.
L'attuale momento di vasti sconvolgimenti, di forte crisi oggettiva e di liberazione, di repentine conversioni, di confusione e di incertezza vissute talvolta senza spessore e dramma, rischia di indurre molti, attraverso una lettura ideologica ed anche, come già avvenuto in passato, superficialmente scandalistica, a semplificare la posizione complessa dello storico, a ignorare con sufficienza il valore conoscitivo della sua lucida analisi di movimenti impetuosi, caotici, sotterranei e in rapido precipitare. Avvisaglie in questa direzione non sono mancate, segno anche questo della miseria dei tempi. In particolare una lettura che vada dallo "scandalo" dell'adesione al "fascismo" di Cantimori, messo sullo stesso piano del successivo errore di adesione al comunismo ('perseverare diabolicum'), fino all'affermazione infondata di un suo presunto filonazismo e antisemitismo. Pecca di schematismo anche chi, pur con rispetto, vede nello storico l'espressione di un'altra epoca, degli anni trenta, l'intellettuale destinato, come i suoi eretici, ad un'inevitabile sconfitta: "portatore di una consapevolezza critica, mai come rappresentante di una alternativa storica" (Paggi, in "il manifesto", 19 luglio). I termini religione-politica con cui Cantimori interpreta la realtà del conflitto politico e sociale sarebbero comunque legati ad un'Europa "teologica" che appartiene tutta ad un'epoca trascorsa. Una riprova sta, per Paggi, nella sostanziale incomprensione, da parte di Cantimori, del tipo dell'eretico inglese del Seicento. L'esempio è Roger Williams "uno dei fondatori della tradizione americana" per cui "l'associazione religiosa è del tutto analoga a un'associazione professionale, a una cooperativa, a una compagnia di commercio. È un diverso modello di tolleranza, che fa riferimento alla nozione di privacy, e che incontra direttamente il processo di formazione del mercato mondiale". È questa "organizzazione del moderno che sarà chiamata a prendere la guida del mondo dopo che il nesso religione-politica avrà dimostrato tutta la sua valenza catastrofica negli svolgimenti della storia europea". In realtà, sembra che questo nesso sia oggi ben lontano da aver esaurito la sua funzione storica in un mondo dove l'intreccio non esorcizzabile di nazionalismi, antisemitismo, razzismi lotte etniche, fondamentalismi religiosi hanno sempre più spazio nella politica e nella "cultura", interessando la maggioranza della popolazione del pianeta. Si tratta di leggere questi scritti avvertiti del fatto che, anche per la precoce e vasta apertura europea dei suoi riferimenti culturali, difficilmente si può assumere il percorso di Cantimori come esemplare del rapporto intellettuali-fascismo.
Quello stesso percorso fu da lui più volte ripensato e analizzato con sincerità senza indulgenze e con aspra amarezza.
Già la Mangoni avverte nell'introduzione, avvalendosi ampiamente anche del testo manoscritto preparato per la traduzione tedesca degli "Eretici", di come non sia solo la concretezza della pratica storiografica a rivelare la fallacia della controversia filosofica ed il limite delle pesanti ipoteche dell'idealismo che riducevano la storia delle idee ad "una metafisica successione di partenogenesi" (p. 134). Bisognerebbe forse sottolineare di più come fin dall'inizio il tentativo di fuoriuscita dal monolitismo attualista mobiliti nel giovanissimo Cantimori una forte e impegnata carica speculativa all'interno di inquietudini diffuse proprio tra autori che a Gentile si richiamavano ma che già avvertivano, in vario modo e in diverse direzioni, l'insostenibilità ed i pericoli totalitari di una monolitica unità di prassi e teoria, di politica e filosofia. Queste suggestioni non sono riducibili unicamente alla "irrequietezza spirituale" della scuola di Saitta, anche se al "pugnace maestro" dell'università di Pisa Cantimori riconosce la fermezza del radicale immanentismo contro interpretazioni spiritualistiche e cattoliche dell'idealismo.
Rispetto al gentilianesimo, come ha testimoniato anche Garin, Cantimori prova insoddisfazione fin dall'inizio per l'insidia irrazionalistica e mistica, per il sacrificio della storia reale nel puntualismo dell'Atto. Queste forti tensioni trovano una prima importante soluzione nel saggio del 1928 "Osservazioni sui concetti di cultura e storia della cultura" ma anche nel blocco di quattro saggi sulla religione e l'idealismo. In questi saggi la religiosità dell'idealismo tende a tradursi completamente in termini di concretezza ed operatività quotidiana fedele alla "professione, arte, mestiere", in un 'ethos' che rimarrà costante in Cantimori. Inoltre si valorizza lo 'Streben' di contro alla forza consolatoria del mito, che irrigidisce e blocca il processo storico. È presente, in una significativa forzatura dell'attualismo, il tema della "tolleranza" come capacità di comprendere l'altra posizione attraverso la storia che vede nella religione positiva una formazione "come tale rispettata, della religiosità umana". Il saggio del 1928 sulla cultura, come sottolinea la Mangoni, pone al centro il tema dello 'Streben' in una postulata continuità tra filosofia e mito. Il mito non rappresenta soltanto l'origine oscura e caotica della formazione culturale, genesi che comunque si deve illuminare, non "rigettare", ma è l'espressione, fornita di una sua dignità, di bisogni, esigenze, sforzi, inquietudini. La gentiliana unità dello spirito diventa così diffusione a tutti i particolari della vita umana (rispettati nella loro autonomia) di uno sforzo all'universalità contro una totalità già affermata e intollerante.
La valorizzazione del carattere intrinsecamente dinamico del mito si accompagna alla individuazione del carattere collettivo di sforzo verso la razionalità. La conversione della politica in filosofia morale, l'eticizzazione della politica che esprime anche la sua origine mazziniana, non appare garantita. Da una parte si individua la tensione verso una politica "mezzo di potenza per tutti, cioè di libertà" (lo stato etico), dall'altra la politica come espressione di "volontà di potenza" che si appoggia unicamente sulle ideologie e sulla ripetizione di un mito dogmatizzato (la 'propaganda'). È importante allora vedere cosa il giovane Cantimori, nella serie di scritti su "Vita Nova", legga nel fascismo e come tenda ad attribuirgli un carattere sperimentale aperto, universalistico-europeo che avrebbe nella tolleranza l'atteggiamento capace di spostare "in terreno più alto la competizione ideale e politica", come Cantimori vi veda la traduzione pratica delle idee filosofiche maturate, l'elemento di attività contro ogni reazione (anche giustificata in nome dei pericoli dell'"asiatismo" e dell'"invadente americanismo"). Le sue illusioni sul carattere rivoluzionario del fascismo (che definirà poi un "mistero di stoltezza") vengono difese contro gli aspetti sempre più diffusi di irrigidimento reazionario di una tradizione autoritaria e dogmatica: Cantimori a questo proposito parla di "crisi di viltà", di rinuncia alla responsabilità individuale e all'immanenza. La ricostituzione di trascendenze non padroneggiabili, "feticci collettivistici materialmente intesi: classe, razza, gruppo aristocratico e così via", di teologie rigide e gerarchiche portavano al diffondersi come protezione dalla crisi di "entità misteriose che dovrebbero consacrare e legittimare questi nuovi portatori di una cupa civiltà". Il ritorno al dogma, alla negazione intollerante della criticità è "bisogno di non pensare, di non vivere seriamente", di temere il confronto tollerante che esclude i pregiudizi sui popoli: "pregiudizi che servono agli altri per scavare fosse al luogo dei confini, per elevare muri al luogo delle pietre che segnano fino dove è arrivata l'Italia: fosse e muri che isolano, che impediscono di vedere, che impediscono di vivere nel mondo, mentre nel mondo, non più in 'casa' noi vogliamo e dobbiamo vivere per ubbidire al comando del Duce" (p. 39). Il finale è significativo della strettoia senza uscita della posizione di Cantimori.
L'inattualità e l'incongruenza con la realtà politica del fascismo e i successivi catastrofici sviluppi metteranno in crisi ogni pretesa dello stato etico di rappresentare la forza razionalizzatrice dei bisogni e delle esigenze del "popolo" nella loro pluralità; fino a vedervi, ben presto, la sublimazione di un'arcana e autoritaria unificazione. Le tonalità fortemente pessimistiche del saggio su "Agnes Bernauer di Hebbel" - che sarebbe stato importante ripubblicare - segnano l'inizio visibile della crisi di fiducia, dell'illusione. Ed è significativo che Mussolini appaia, nelle successive recensioni di Cantimori agli "Scritti e discorsi" piena espressione di "volontà di potenza", di quella politica che lo fa "discepolo di Federico Nietzsche". Cantimori vede divenire pesante "propaganda" ogni manifestazione dello spirito e della "cultura" (ogni pluralità è apparente, non vero gioco e confronto), in quanto tutto ciò che si muove viene unificato dalla volontà di potenza intollerante del duce e viene ad essa funzionalizzato ("nelle sue parole, tutti scompaiono in lui"). Citando Mussolini: "Lo Stato è uno, è una monade inscindibile, lo Stato è una cittadella nella quale non vi possono essere antitesi n‚ d'individui n‚ di gruppi" (p. 586). La premessa è il pessimismo politico sulla natura umana che approda al " machiavellismo" che giustifica l'imposizione di gerarchie, la disciplina incondizionata, la dittatura. Le "masse del popolo" sono vedute dal fascismo unicamente "come mezzo, come elemento di forza, di grandezza, di potenza". Conseguenti le riflessioni di Cantimori sulla "propaganda", sulla sua struttura e genesi polemica che rinuncia alla "critica e chiarimento", "che fa centro sull'avversario e finisce per aver valore solo in funzione di esso" (p. 716). Siamo agli antipodi di ogni "educazione politica" della "formazione di una classe politica": viene smentita brutalmente ogni giovanile idealizzazione del fascismo come "rivoluzione", come apertura (sorretta da una particolare interpretazione dell'"esperimento" corporativo).
La propaganda è strumento privilegiato per il dominio (importante a tal proposito la lettura del "Mein Kampf" di Hitler): significa adeguamento ai livelli più bassi della razionalità diffusa, distorsione dello 'Streben' spontaneo in una direzione unilaterale, fanatica, teologica.
La disillusione di Cantimori attraversa l'inferno dei vari movimenti conservatori e reazionari, culturali e politici, della Germania "teologica", neopagana, razzista, con una lucida attenzione al "senso del primitivo, del barbarico vorremmo dire, se si potesse interpretare la parola in senso non spregiativo, quel senso della energia ancora indifferenziata, fresca e potente al suo primo dispiegarsi, di tutto ciò che è estremo", che cerca invano un oggetto su cui esercitarsi e che si concretizza di "radicalismo politico e di pessimismo..." (p. 235) . È un'"Europa sotterranea" per cui valgono gli aggettivi 'ungebeuer', 'unheimlich', in cui la "religiosità" diffusa, espressione di bisogni reali, ed ogni 'Streben' vengono piegati ad un quadro fortemente gerarchico-autoritario che sfocia nella piena nazionalizzazione delle masse operata dal nazismo.
Importanti sono i saggi su Carl Schmitt, su Jünger: la discussione critica del decisionismo e del platonismo della 'Gestalt', di posizioni che, in modo diverso, acquietano in un ordine del passato, gerarchico e reazionario, militare e prussiano, in un'assolutezza teologica le inquietudini ed il disordine dell'epoca nuova segnata dall'esperienza della guerra. È la sorte generale di questa tensione che esprime il caos: quando si passa dalla critica alla prospettiva costruttiva della "nuova forma di società" che si deve opporre a quella contro cui si proclama la propria "resistenza", si cade nel generico oppure in una forma gerarchica/passata. "È sempre la cavalcata senza meta, dietro la bandiera nera dei disperati" (p. 264).
È quella di Cantimori la critica di "una" forma di politica, non l'accettazione rassegnata della politica come puro gioco di potenza. Ed anche dopo le nuove delusioni storiche del 1956, rispetto alle "ombre del domani" (l'immagine significativa di Huizinga, uno storico pur lontano dalla sua sensibilità e dal suo 'éthos', lo aveva colpito) sembra restare ferma in Cantimori la consapevolezza del lavoro concreto, della resistenza implicita in quella quotidiana pazienza del conoscere, del capire senza scorciatoie ideologiche, senza prevaricazioni aprioristiche ma lontano anche dalla rarefazione dello "spirito libero" o dalla risoluzione tecnicistica e meramente filologica dell'oggetto storico. "...senza un centro, senza una linea propria, questa storia pura può soggiacere a quel che il fluire storico può, nella forma di imposizione o tendenza politica, imporle: nazionalismo, imperialismo, conservatorismo, rivoluzionarismo astratto, e via dicendo..." ("Storici e storia", p. 278).
È il ripresentarsi, più vicino, del modello di Burckhardt capace di liberare lo sguardo da ogni filosofia della storia prevaricante ma anche così lontano e diffidente verso l'entusiasmo del giovane Nietzsche, dal suo "tono di apostolo". "C'è una vitalità e serietà reale nelle semplici affermazioni del vecchio studioso, fermo al suo posto di lavoro se pure sgomento ed attento al concreto e al particolare, libero veramente perché davvero senza illusioni".
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